lunedì 16 aprile 2018

VENDITORI DI RICORDI

 Quando tornai a casa dal lavoro quella sera non mi sarei mai aspettato che fosse l'inizio di un avventura. Mia moglie mi annunciò con esuberante eccitazione di un offerta per una vacanza. -Dove?- Chiesi. -Non te lo immagineresti mai- rispose. -vieni e vedere- aggiunse. E mi trascinò al computer dove mi fece vedere una mail che aveva ricevuto. Minicrociera sul Nilo, 399 euro. Clicca qui per vedere l'offerta. -Sul Nilo?! In Egitto?- rimasi un po' sbalestrato da questa notizia. Lei era raggiante, mi guardava con uno sguardo supplichevole.- ce la prendiamo una vacanza?- guardai il programma. Il costo comprendeva il trasferimento in aereo da Milano a Luxor e ritorno, (al ritorno si doveva fare scalo tecnico a sharm el sheik) alloggiamento in motonave cinque stelle, minicrociera sul Nilo con visite ai maggiori templi dell'antico Egitto: il tempio di Luxor, di Karnak, di Edfu, il empio di Philae e l'isola di Elefantina. Poi c'erano due escursioni facoltative, al tempio di Abu Simbel e al Cairo. Ma la cosa più straordinaria è che era vero!! forse ce la potevamo permettere, quasi quasi ce la potevamo fare. L'unica cosa che mi faceva pensare era che non era compresa la visita alle grandi piramidi di Giza, se non con escursione facoltativa al costo di 150 euro a testa. Non era tanto per la cifra, abbordabile e tutto sommato nemmeno tanto eccessiva, se si considera che prevedeva il trasferimento aereo da Luxor al Cairo e ritorno, quanto per la faticaccia. Citando una nota affermazione di Carlo Monni a proposito della proposta di proibire la vendita del vino alle bancarelle del lampredotto a Firenze, dissi: - andare in Egitto senza vedere le Piramidi è come andare in un bordello e non trombare!!!- Ma lei mi bloccò subito dicendo - ci andremo un'altra volta!! - Seguirono un paio di giorni di dubbi e ripensamenti: non sarà pericoloso? Se la nave affonda non sarà mica difficile nuotare fino a una riva, quanto sarà largo il Nilo? Che ci può succedere? In fondo è un fiume come tutti gli altri, che pericoli ci potranno mai essere? i coccodrilli? gli ippopotami? I ragazzi rimarranno da soli a casa, ce la faranno? Daranno da mangiare a cani e gatti? Glielo chiedemmo e dire che furono entusiasti e dir poco. Una settimana intera con la casa libera a disposizione? Furono cori di: finalmente, era ora, perché non ci rimanete anche di più? Finché una sera, anche se ancora non consapevoli di tutto, cliccammo quel particolare pulsante e facemmo quel particolare pagamento. Era fatta. Era deciso. Saremmo andati in vacanza in Egitto. Non pensavamo di fare le escursioni facoltative ad Abu Simbel ed al Cairo , perché pensavamo fossero troppo impegnative, stancanti. Ma eravamo in barca, e trattandosi di una minicrociera era il posto giusto. Ma io ancora non ci credevo. Continuavo a fare il mio lavoro di sempre. Ogni tanto ci pensavo e non mi pareva vero. Avevo letto molto su l'antico Egitto, i suoi templi, le sue leggende e tradizioni. Spesso, leggendo qualche articolo e capitolo di un libro, o guardando un documentario, mi immaginavo di esserci, di vedere dal vero, di toccare con mano quelle rocce, quei geroglifici. Più di una volta avevo affermato che se un giorno fossi riuscito ad andare in Egitto, sarei rimasto là. Cominciammo ad organizzarci. I bagagli: Cosa dovevamo o potevamo portarci? Ci informammo sul clima, in Egitto praticamente non piove dall'ultima era glaciale. Fa molto caldo anche in aprile. Quindi vestiti leggeri: pantaloncini corti, magliette, creme protettive, cappelli e occhiali da sole. Ci serviva una valigia, uno zaino. Non avevamo mai fatto un viaggio in aereo, non sapevamo cosa ci aspettava. A dire il vero Manuela aveva fatto un viaggio in Inghilterra molto tempo prima, ma non si ricordava niente. Io avevo fatto un giro su un aereo, un ultraleggero. Un mio amico che stava prendendo il brevetto di pilota aereo mi chiamò un giorno per chiedermi se volevo fare un giro con lui. Aveva superato un esame e poteva volare con qualcuno accanto. Pensò a me. - abbiamo un paracadute? - chiesi. - no, - fu la risposta. - ha un paracadute l'aereo? - di nuovo la risposta fu negativa. - se si viene di sotto si muore? - si potrebbe rimanere su una sedia a rotelle...- - ok, quando si va? - Fissammo per la domenica successiva. “L'aereo” era una specie di vasca da bagno aggrappata ad un palo di ferro (così lo aveva descritto anche lui). Sul palo c'era un motore: rotax 500cc 2 cilindri, (se se ne guasta uno ce n'è uno di riserva) Sempre sul palo sopra alla vasca, le ali, non saprei bene di che materiale fossero, erano bianche. In fondo al palo la coda col due piccole ali e il timone. Tra la vasca da bagno e il palo, c'era il serbatoio, semitrasparente, per vedere inequivocabilmente il livello del carburante. Non ci si fida dei sensori, galleggianti o quant'altro. Faceva freddo, era febbraio. Salimmo nella vasca da bagno, davanti c'era una lastra di materiale trasparente, plexiglass? I comandi erano ripetuti per entrambi i passeggeri/piloti. La cloche: una specie di leva di joistick e un paio di pedali. Un po' di strumenti che indicavano la velocità, i giri del motore, l'altitudine, e uno al centro molto carino: l'orizzonte artificiale, praticamente una livella. - adesso mettiamo in moto – disse. - via dall'elica – urlò, e pigiò il bottone dell'accensione. Il motore si avviò e ci fu subito un gran vento, nonostante la lastra di plexiglass. l'aero/vasca da bagno si avviò verso la “pista” di decollo: un prato verde. Prese un bel po' di rincorsa, saranno stati 50 metri, poi non si sentì più lo sballottamento delle ruote sull'erba. Eravamo in aria. - tutto bene? - mi chiese. - tutto bene – risposi. - allora si va!! - - andiamo. - sorvolammo un po' di campi e di strade, mi venne in mente una canzone di De André: volammo davvero sopra le case oltre i confini, gli orti e le strade, poi scivolammo tra valli fiorite dove all'ulivo si abbraccia la vite... Sorvolammo la mia casa, poi risalimmo la valle del bisenzio fino a Vaiano e quindi verso i monti della Calvana quasi fino a Montepiano, quindi tornando indietro seguimmo tutto il crinale da Cantagrilli alla Retaia e infine tornammo verso la Venturina, campo di volo. L'atterraggio fu l'esatto contrario del decollo, a un certo punto si sentì lo sballottamento delle ruote sull'erba e l'aereo/vasca da bagno, si diresse al capannone dove sostava. Il tutto in circa due ore. Era andato tutto bene, non eravamo caduti, stavamo bene e , a parte il freddo terribile, ci eravamo anche divertiti. Quella era stata la mia unica esperienza di volo. E avevo fatto il militare nell'aeronautica!! In pratica né io né Manuela, avevamo la minima idea di cosa ci aspettava. Eravamo assolutamente ignari di tutto. Al negozio dove comprammo una valigia ci dissero che generalmente i bagagli ammessi sono di circa 20 kg. Poi c'è un bagaglio a mano, di solito circa 5 kg. Avevo sentito qualcosa a riguardo del peso ammesso. Chiaramente, più peso si porta più energia serve a far volare l'aereo. Quindi hanno giustamente imposto dei limiti, limiti che variano da compagnia a compagnia. In seguito altri dubbi: ci dissero che in Egitto è molto probabile soffrire di problemi intestinali: diarree e dissenterie, Sarà per il cibo, l'acqua, il gran caldo e i locali con aria condizionata sempre al massimo. Ci consigliarono di bere esclusivamente acqua confezionata, mai di rubinetto, e nemmeno di mangiare verdura fresca: insalata ecc. poiché probabilmente lavata con acqua di rubinetto. E l'acqua di rubinetto è quella del Nilo filtrata e depurata, il fiume è l'unica risorsa d'acqua e di qualsiasi altra forma di ricchezza dell'Egitto, tutte le città e quasi 87 milioni di abitanti si trovano sulle rive del Nilo, il resto è deserto. Addirittura di fare attenzione anche a lavarsi i denti, meglio usare acqua confezionata. Così ci premunimmo con vari medicinali contro infezioni dell'apparato digerente e altri inconvenienti del caso. Arrivò finalmente il 15 aprile: fatidico giorno della partenza. Ommioddio!!! Che ci succederà? Il volo partiva da Milano Malpensa, terminale n 1, alle ore 17,30. dovevamo essere sul posto due ore prima per il ceck in (che roba sarà mai? ). Avevamo pensato di andare fino a Milano con il treno ma il costo dei biglietti di andata e ritorno era talmente esagerato che ritenemmo molto più conveniente andare in macchina e lasciarla in uno dei tanti parcheggi che sono nei dintorni, quasi esclusivamente per chi va in aeroporto. Partimmo da casa nostra verso le 9 di mattina. Ommioddio!!! Pioveva. Per tutta la strada da Prato a Milano non ci fu un attimo di tregua, pioggia continua, leggera, fine-fine. Aumentò leggermente appena passato il valico appenninico per poi calmarsi traversando la pianura padana, naturalmente immersa nella nebbia. Per strada si parlava delle cose che avremmo visto, delle leggende che avevo letto, delle storie dell'antico Egitto, i Faraoni, le piramidi... Piccola sosta per caffè e svuotamento vescica verso Carpi, poi si riparte. Finché il navigatore, parlando con voce di una simpatica napoletana, ci disse: - simm'arrivati! so iute tutt'cos'buone, sient'a me, visto che t'aggi' portato fin'accà, me l'offrresti na tazzulilla e café?- ma non eravamo al parcheggio, forse avevano cambiato sede negli ultimi tempi... Comunque era li vicino. Pranzo al sacco, ovvero panino in macchina. La Manuela inviò un messaggino alla Marta, nostra figlia con scritto solo: Ommioddio!!. Infine entrammo nel parcheggio. Avevamo già prenotato e pagato on line. Furono molto gentili, ci impacchettarono i bagagli come d'accordo, ci chiesero la destinazione. - Egitto - risposi, - Sharm el Scheik ? - chiese l'impiegato - no, Luxor – risposi. Mi sembrò che ci fosse rimasto un po' male. - se vuoi scrivere Sharm el Scheik fai pure, ma noi andiamo a Luxor, - stavo per rispondere. Ci accompagnarono all'aeroporto. Terminale n 1, tutto come previsto. Ommioddio!!! Era molto presto, circa le 14. andammo allo sportello “phone and go” come c'era scritto sui documenti di viaggio. La signorina tanto gentile ci indicò il luogo del ceck-in. Ma c'era già scritto anche quello sui documenti. Bastava guardare. Scoprimmo che il “ceck-in è una specie di biglietteria dove controllano i documenti, i biglietti, pesano i bagagli e li buttano su un nastro trasportatore. Il nastro stesso è una bilancia. Dovevamo solo aspettare circa due ore. Cominciammo a gironzolare per il terminale curiosando qua e la. Da una enorme vetrata si potevano vedere le piste di atterraggio e vari mezzi di servizio agli aerei. C'erano diversi mezzi di servizio di varie dimensioni: uno strano tipo di camion con il pianale di carico molto basso e la cabina di guida su un lato. Mi domandavo la sua utilità. La mia curiosità fu presto soddisfatta: proprio li vicino, uno di quegli strani camion fu portato sotto ad un aereo in sosta che aveva finito le operazioni di rifornimento, carico bagagli e passeggeri; quindi doveva partire, fecero salire sul pianale la ruota anteriore dell'aereo e lo spostarono indietro, per metterlo in una posizione dalla quale poteva poi andare da solo. Per fargli manovra. Probabilmente gli aerei non hanno la retromarcia. Ore 15,30. aprì il ceck-in, mezz'ora di anticipo. Quanto sarà pesante il nostro bagaglio? Non eravamo riusciti a pesarlo, l'unica bilancia attendibile di casa era la “pesapersone” ma la valigia non ci stava sopra e non sapevamo con esattezza quanti chili fosse. C'erano molti ingressi con gli impiegati ma alcuni erano liberi. Quindi, prima provammo a depositare il bagaglio su un nastro libero e scoprimmo con sollievo che era appena 13 chili. Meno male, possiamo anche comprare un po' di souvenir. Tutto a posto, consegnammo i bagagli ai quali appesero una striscia di carta con un numero e altre cose, e ci dissero di andare al “ gate B 4 ” . Ommioddio!!. Panico. Che roba è il gate B 4? Gira che ti rigiro, trovammo infine delle indicazioni, ingresso al gate A e B. al piano inferiore. Andiamo. C'erano le scale mobili anche per scendere. Al piano inferiore continuammo a seguire le indicazioni per il “gate A e B. finché non arrivammo ad un altro controllo. Una specie di metal detector. Dovevamo passare dentro una specie di porta senza la porta, senza avere addosso niente di metallico. Quindi niente chiavi, cellulari, macchine fotografiche, anelli e neppure la fibbia della cintura. Dovetti passare tenendomi i calzoni. Tutto quello che ci eravamo tolti passava da un altra porta più piccola, una specie di radiografia, da un monitor vedevano il contenuto delle borse e degli zaini. Tutto a posto, passato anche questo controllo, e rimessa la cintura, scoprimmo un supermercato che chiamavano “duty free”. Praticamente era una zona “franca” non appartenente a nessuna nazione, e in teoria doveva avere dei buoni prezzi. C'era di tutto: sigarette, profumi, abbigliamento, alimenti, piatti e pentole, liquori eccetera eccetera. Ma non mi sembrava che i prezzi fossero particolarmente bassi. Seguendo i vari corridoi trovammo finalmente un bivio: a destra gate A, a sinistra gate B. ora si doveva trovare il numero 4. Non fu difficile, c'erano solo 4 uscite, la nostra era l'ultima. Su di un televisore appeso c'era indicata la partenza: volo IG7890 Meridiana fly delle ore 17,30 per Luxor. Mancava ancora un'oretta buona. Aspettiamo. Ommioddio!! Le tante poltroncine cominciarono a riempirsi di gente. Andranno tutti a Luxor? Quando prenotammo scoprimmo che potevano prenotare solo tre coppie per volta. Quindi tra quelle persone ci sarebbero state le altre due. Quali saranno? Cominciai a osservare quella gente, ma non riuscivo a individuare chi fossero i nostri compagni di viaggio. L'aereo aveva una capacità di 192 passeggeri, inoltre dopo Luxor, proseguiva per Sharm el Scheik. Impossibile individuare le altre due coppie. Ore 17,00. Ommioddio!! ci siamo. Arrivò una ragazza che chiamò i passeggeri per il volo IG7890 Luxor / Sharm el Scheik (che significa “tana dello sceicco”). Centonovantadue passeggeri si mossero lentamente verso una specie di banco dove quella ragazza controllava il biglietto e un documento. Passammo anche da li e uscimmo fuori dove c'erano ad aspettarci due autobus. Quando finalmente fummo tutti saliti il pavimento delle autobus si alzò e ci portarono sulla pista vicino all'aereo. Volo IG7890 Meridiana Fly. Bell'aereo!! bianco con tutte le scritte rosse, tutti gli oblò in fila. Salimmo sulla scaletta “ non mobile” fino ad uno dei portelloni. Prima volta su un aereo di linea. Lo avevo visto solo nei film. Tre poltroncine su un lato, un corridoio al centro e altre tre poltroncine sull'altro lato. Sui nostri biglietti c'era anche scritto il numero della poltroncina, ma noi non ci avevamo fatto caso. Un passeggero, che ci vide un po' disorientati, ci spiegò dove erano i numeri delle poltroncine e il numero sul biglietto. Ringraziammo di cuore e cercammo le nostre poltroncine. Manuela aveva la poltroncina vicino al finestrino. Ommioddio!! Ci scambiammo i posti, io preferivo stare dalla parte del finestrino, volevo vedere. Quando tutti furono saliti e sistemati, i portelloni chiusi, l'aereo cominciò a muoversi verso la pista di decollo. Le hostess passavano su e giù per controllare che tutto fosse a posto, i bagagli a mano dovevano stare in un apposito vano sopra la testa, oppure sotto i sedili, tranne che in corrispondenza delle uscite di sicurezza. Uscite di sicurezza?? dagli altoparlanti il comandante dell'aereo diede il benvenuto a bordo a tutti i passeggeri, ringraziò per aver scelto di volare con Meridiana Fly, (come se fosse stata una nostra scelta) e ci augurò un buon viaggio. Si aprirono sopra le nostre teste dei monitor che spiegavano come fare in caso di emergenza. Proprio come nei film. Spiegavano molto dettagliatamente come mettersi la maschera per l'ossigeno in caso di depressurizzazione dell'aereo, come indossare il giubbetto di salvataggio nel caso di ammaraggio e di come usare le uscite di sicurezza. Nel frattempo eravamo arrivati sulla pista di decollo e ci fermammo. Eravamo in coda. Come a Prato nel borgo Valsugana a qualsiasi ora del giorno. Il capitano annunciò di allacciarsi le cinture di sicurezza e di regolarle. Ma lo avevano spiegato anche nel monitor, e pure in due lingue: italiano e inglese. Breve attesa, si e no cinque minuti, e finalmente l'aereo si posizionò al centro della pista di decollo, almeno credo, perché dal piccolo oblò non avevo una gran visuale. Vedevo l'ala destra con un motore e poco altro. Si parte. Ommioddio!! l'aereo prese velocità. Il rumore dei motori aumentò sensibilmente. Una forte accelerazione. Molto più forte di qualsiasi mezzo che avessi guidato o sul quale fossi salito. E continuava ad accelerare!! Vedevo il lato della pista oltre l'ala scorrere sempre più veloce, poco distante anche alberi e case. Mi domandai come facessero a vivere in quelle case così vicine all'aeroporto!? Pensai un attimo alla nostra casa in campagna, così silenziosa e tranquilla. Al massimo può passare un trattore o si sentono i versi degli animali selvatici nel bosco vicino. Ommioddio!! Il rumore cambiò, diminuì e gli alberi cominciarono ad allontanarsi, le case diventarono sempre più piccole, il rumore diminuì ancora. Calcolai che la prima volta che era diminuito il rumore doveva essere stato quando le ruote, o carrelli, si erano staccati da terra. La seconda volta quando i carrelli erano rientrati dentro alla pancia dell'aereo. Sull'ala vedevo l'acqua che volava via. Ancora pioveva. Poi ci fu la nebbia. Doveva esserci, stavamo oltrepassando le nubi. Poco dopo uscimmo al sole. Lo avevo previsto. Gli aerei volano ad una quota superiore alle nubi. Lassù non piove mai. Dai monitor appesi mandavano notizie sul volo, una carta con la posizione dell'aereo, in tre o quattro diverse modalità: molto piccola con la rotta prevista, poi cambiava e faceva vedere la posizione dell'aereo e la posizione di alcune città, infine una schermata che informava dell'altitudine, la velocità, e la temperatura esterna. L'altitudine continuava ad aumentare: 7000, 8000, 9000 metri... Anche velocità continuava ad aumentare: 700, 750, 800 kmh... La temperatura esterna continuava a diminuire -25°, -30° -35°... si stabilizzò a 10700 metri, una velocità di 950 kmh che aumentava molto lentamente e una temperatura esterna di – 50°. Ommioddio!! il comandante annunciò che si potevano togliere le cinture di sicurezza. l'arrivo a Luxor era previsto per le 21,30. passarono le hostess con un carrello e ci diedero dei fazzolettini profumati. Poco dopo ripassarono a portarci la cena. Un vassoietto con poche cose. Un risotto credo, dal sapore insipido, dei pezzetti di una cosa bianca che avrebbe anche potuto essere pollo, o forse lo era stato in un tempo remoto, cosi almeno ci dissero le hostess, e delle cose gialle che forse erano patate, il tutto dello stesso sapore del risotto. Infine un bicchiere d'acqua e perfino il caffè. Stabilimmo che per cibarsi di quelle cose ci voleva una gran fame, e noi, con solo un panino in macchina sei o sette ore prima, avevamo la fame che ci voleva. Il sole cominciava a tramontare e quando stavamo sorvolando l'isola di Creta sparì del tutto. Dai monitor cominciarono a mandare dei filmati. Delle scenette comiche e cartoni animati. Ma senza audio. Comunque erano divertenti. Ogni tanto un tremore e un rumore sordo. Si sentiva l'aereo alzarsi e abbassarsi leggermente. Il comandante annunciò di allacciarsi le cinture di sicurezza perché stavamo oltrepassando una zona con delle leggere turbolenze. Ommioddio!! Come nei film. Adesso scenderanno le maschere per l'ossigeno e dovremo effettuare un atterraggio di emergenza, magari in mare!!! le turbolenze in effetti erano davvero leggere. Nonostante non avessi esperienza di voli di linea, i tremori e i rumori sordi con alzamenti e abbassamenti furono molto lievi. Il comandante comunque non annunciò più che potevamo slacciare le cinture. Non era proibito stare con le cinture allacciate. Era obbligatorio tenerle allacciate quando lo diceva il comandante, e c'era anche una spia luminosa che lo indicava. Ma se uno si sentiva più tranquillo o sicuro con le cinture allacciate anche per tutto il viaggio, poteva tenerle senza nessun problema. Finalmente dopo circa tre ore di volo, il comandante annunciò che stavamo iniziando la manovra di discesa verso Luxor, che saremmo arrivati in perfetto orario, anzi con qualche minuto di anticipo, e di nuovo di allacciare le cinture di sicurezza. I monitor tornarono a indicare la mappa, e le altre informazioni sul volo. La quota era ancora a 10700 metri, la velocità era salita a 1036 kmh e la temperatura esterna sempre a -50°. dal finestrino non si vedeva niente. Era buio pesto. Si sentì però sensibilmente scendere l'aereo. Il monitor indicava la discesa e la riduzione di velocità. Ci vollero circa 10 minuti prima di riuscire a intravedere qualche luce in basso. Luci Egiziane. Vidi l'ala abbassarsi visibilmente e tutto l'aereo inclinarsi di lato. Stava girando, o come dicono loro: virando. Si riposizionò in orizzontale e poco dopo di nuovo fece un altra curva. Le luci di Luxor erano sempre più vicine. Mi domandavo se fossi riuscito a vedere le luci della pista, ma niente, avevo una visuale laterale e non vidi la pista fino a che non ci fummo sopra. Aumentò sensibilmente il rumore: erano usciti i carrelli. L'aereo scese ancora, le luci erano sempre più vicine, ora si distinguevano anche delle case e delle strade. Sempre più in basso. La temperatura ora era salita a + 20°. Infine si sentì chiaramente il momento in cui le ruote toccarono terra, una specie di rombo, un piccolo sobbalzo e poi un rumore molto più forte. Il retro delle ali si era alzato per frenare. Dice che si chiamano “flaps”. I passeggeri fecero un applauso al pilota, dev'essere una specie di tradizione alla quale ci adattammo anche noi. L'aereo rallentò sensibilmente, a fine pista era quasi fermo ma continuò a muoversi lentamente verso il luogo del parcheggio dove si fermò e spense i motori. Eravamo arrivati. Ommioddio!! Il comandante annunciò che eravamo atterrati all'aeroporto internazionale di Luxor, ci diede il benvenuto in Egitto e ringraziò ancora per aver scelto di volare con Meridiana Fly. Si aprirono i portelloni e cominciammo a scendere. Non tutti, circa 70 passeggeri. Gli altri proseguivano per Sharm el Scheik. Formalità burocratiche: dovevamo fare il visto di entrata. Serviva la carta di identità. L'avevamo rifatta nuova proprio per l'occasione. Ci portarono i bagagli e un impiegato della Phone and go ci assegnò un numero che dovevamo appiccicare sul bagaglio. Ci assicurò che li avremmo trovati fuori dalla nostra camera sulla motonave. Il numero era quello della camera. Noi avevamo la n°324. Ci dissero di non dare assolutamente nessuna mancia ai facchini anche se sicuramente la chiederanno, erano già pagati. Fuori nel parcheggio ci stavano aspettando due autobus per portarci sulla motonave. Salirono anche due persone: uno si chiamava Ahjaraf, (chissà come si scrive) era il responsabile della phone and go per la nostra vacanza. Faccia butterata, un omone grosso, alto, tutto pelato. Sembrava il tipico avanzo di galera. Ci disse in un quasi perfetto italiano che saremmo andati sulla motonave per la cena e per il pernottamento. Poi ci affidò ad una guida che ci avrebbe seguito per tutta la settimana. Si chiamava Nagy. L'autobus partì. Pochi chilometri e, oltrepassato un cancello controllato da guardie, arrivammo in una specie di giardino sulla riva del Nilo. Ancora non ci credevo: eravamo in Egitto, a Luxor, l'antica Tebe, quella della famosa poesia di Bertoldt Brecth: “Tebe dalle sette porte, chi la costruì?”. Eravamo sul Nilo, il fiume più lungo del mondo (anche se si contende il titolo con il Rio delle amazzoni). L'unica fonte di ricchezza e prosperità di tutto l'Egitto. Quante cose avevo letto, quanti libri avevo studiato e quanti documentari avevo visto sul Nilo e sull'Egitto! e ora c'ero, il grande fiume degli Dei, il Fiume considerato egli stesso un Dio, adesso era lì sotto di me. Che emozione!! e che ci voleva? Poche ore di volo!! Da una passerella salimmo su una motonave che attraversammo, quindi su un'altra e un altra ancora. La nostra motonave si chiamava Lady Carol, era ancorata al terzo posto di quattro. Per salire sulla nostra motonave se ne dovevano attraversare altre due. Ci assegnarono le camere e ci diedero la chiave. Lasciammo i nostri bagagli a mano in camera e andammo nella sala ristorante per la cena. Saranno state le 10,30 di sera. Ci dissero di scegliere un posto ad un tavolo e quello sarebbe rimasto per tutta la settimana. Così ci sedemmo ad un tavolo rotondo insieme ad altre tre coppie. Ci presentammo: alla mia sinistra c'era un signore torinese sulla sessantina di nome Pier. A seguire c'era sua moglie Lorena. Dopo di loro c'erano Tommaso e Irene, due giovani fidanzati. Lui di Prato come noi e lei di Siena. Girando ancora intorno al tavolo c'era Massimo e la moglie Paola, di Genova. Un po' più giovani di noi. Tommaso mi squadrò due secondi quando facemmo le presentazioni, dicendomi che gli sembrava di conoscermi. Mi chiese che lavoro facevo. - elettricista – risposi - e tecnico del suono - - eccoci! - rispose Tommaso – eri il tecnico del Prato young rock festival al castello qualche anno fa- Era vero, anche Irene si ricordò di me, c'era anche lei. Facevano parte dell'organizzazione. Era il colmo, erano passati almeno quattro anni da quella manifestazione, i ragazzi dell'organizzazione non li avevo più rivisti, organizzarono quella festa e poi non fecero più niente. E adesso ci si ritrovava in vacanza insieme in Egitto!! Mah!! I camerieri ci dissero che il ristorante era a buffet, riuscimmo a capire solo la parola “buffet”, ci dovevamo servire da soli. Meglio, almeno potevamo scegliere quello che ci pareva. Prendemmo qualche cosa giusto per gradire e per assaggiare: un po' di riso, sempre presente, e qualche verdura semisconosciuta. Avremmo passato tutta la settimana insieme a quel tavolo, cercammo di fare conoscenza. Così scoprimmo che Pier e Lorena erano in pensione. Erano stati insegnanti. Lei di scuole elementari e lui di un liceo. Tommaso era un venditore di collegamenti Google, non ho capito bene in che cosa consistesse il suo lavoro, diceva che era sempre in giro, in particolare nel nord Italia, ma anche all'estero. Irene lavorava in una azienda farmaceutica, una specie di laboratorio sperimentale di medicinali. Massimo disse che era Vigile urbano e Paola operatrice ecologica. Breve cena quella sera anche perché avevamo già “cenato” sull'aereo, facemmo un giro veloce sulla motonave poi ci salutammo e andammo a dormire. I nostri bagagli erano davvero davanti alle porte delle camere, ma a noi ne mancava uno. Lo dissi al cameriere, che parlava solo egiziano, e gesticolando mi fece capire di guardare se fosse davanti a qualche altra porta. Piccola ricerca e trovai il nostro bagaglio quattro o cinque porte distanti. Tutto ok. Il cameriere mi salutò e tornò alla sua occupazione. In camera c'erano due letti separati. Non eravamo abituati a dormire in letti separati... vabbé, ci abitueremo. La mattina dopo alle sei in punto suonò il telefono sul comodino. Iniziavano le escursioni. Prima tappa, dopo la colazione, ai colossi di Menmone sulla riva occidentale del Nilo. Nagy salì sul pullman e ci disse che lui sarebbe stato la nostra guida per tutta la settimana. Ci chiese i nomi uno ad uno, eravamo in 18. Massimo e Paola, Tommaso e Irene, Pier e Lorena, un altro Pier detto Messico (messicano vero ) e Simona, Dario e Franco, Rosa e la figlia Elena, Antonella, Barbara, Giada, Dana, infine io e Manuela. Gruppo davvero molto bene assortito. Sull'altro pullman erano in 40. La loro guida si chiamava Nady. Partimmo circa verso le sette. Il pullman attraversò un ponte. La motonave era attraccata sulla riva orientale e l'escursione era sulla riva occidentale. La riva orientale, con i grandi templi di Luxor e Karnak, l'avremmo visitati il sabato prima della partenza. All'inizio e alla fine del ponte c'era un posto di blocco, delle transenne di traverso alla strada, il pullman doveva fare uno slalom per passare, delle piastre di ferro con degli spunzoni acuminati appoggiate da una parte pronte all'uso in caso di necessità. Come si vede nei film quando devono fermare una macchina che sta scappando: mettono quelle piastre in mezzo alla strada per far bucare le gomme. Dentro a una piccola costruzione un soldato con un fucile. Traversato il Nilo costeggiammo un canale con tante piccole costruzioni sull'altra riva. Nagy ci spiegò che quelle erano le case dei contadini, fatte di mattoni di fango e con il tetto di paglia; tanto non piove quasi mai... Fuori dalle case c'è quasi sempre una panca fatta dello stesso materiale, che loro chiamano “mastaba”, spesso la sera si trovano sulla mastaba seduti a chiacchierare e a fumare il narghilé. A volte ci sono anche delle giare o anfore, appese ad una palma o ad un palo, sono piene di acqua e c'è sempre un bicchiere a disposizione per chiunque ne abbia bisogno, è una forma di ospitalità in un paese molto caldo; anche se bevono tutti dallo stesso bicchiere. Lavorano un pezzo di terra, hanno quasi tutti degli animali da cortile e almeno un asino, poiché è il principale mezzo di trasporto. Il canale è una sorta di fogna a cielo aperto, i contadini ci buttano di tutto, dagli scarichi dei gabinetti, alle carogne degli animali se non possono essere consumate. L'acqua era davvero molto sporca. Loro però ci fanno anche il bagno e spesso si prendono una malattia molto grave. (ci disse il nome della malattia in arabo, un nome impronunciabile per noi) Nonostante venissero continuamente avvertiti del pericolo che corrono, nonostante capitasse spesso che qualcuno si ammalasse, i contadini continuavano a fare il bagno in quel canale!! Il pullman si fermò in uno spiazzo. Prima di scendere Nagy ci spiegò alcune cose a proposito dei colossi de Menmone. Facevano parte di un grande tempio, erano situati ai lati dell'ingresso, rappresentavano entrambe il faraone Amenhotep III. Ci raccontò che nel 27 avanti Cristo ci fu un terribile terremoto che distrusse completamente il tempio, ma non i colossi. Quello di destra però aveva subito dei danni, si era formata una fessura. Nelle giornate di vento, l'aria passando dalla fessura, produceva uno strano suono, simile ad un lamento. I greci interpretarono questo come un saluto dell'eroe Menmone alla madre Eos. Nel 199 dopo Cristo l'imperatore romano Settimio Severo li fece restaurare e la fessura fu richiusa, cosi i lamenti non furono più sentiti. Ma io questo lo sapevo già, lo avevo letto prima di partire. Nagy ci informò inoltre che ci sarebbero stati molti venditori che ci avrebbero assalito proponendoci anche molto insistentemente le loro mercanzie. - se volete comprare qualche cosa fate molta attenzione, è quasi tutta roba falsa, le statuette sono di gesso e non di pietra, se cadono si rompono. I papiri sono di plastica anche se molto realistici. Inoltre ci sarà sicuramente qualcuno che vi chiederà di cambiare delle monete con delle banconote; fate molta attenzione, la moneta da una lira egiziana, e ce ne vogliono quasi otto per un euro, è molto simile alla moneta da due euro. Se avete dei dubbi, di qualsiasi tipo rivolgetevi a me. - anche questo lo sapevo già, me lo aveva raccontato un amico che c'era già stato. Detto questo si aprirono le porte del pullman e scendemmo. Dire che i venditori ci assalirono non rende l'idea. Un esercito di persone di tutte le età, principalmente uomini e bambini, con in mano di tutto, cartoline, statuette di gatti e faraoni, piramidi e scarabei sacri, cartoline, camice, sciarpe, papiri, bottiglie di acqua fresca, e tante altre cose. Si paravano davanti sventolando la loro mercanzia urlando – un euro!! un euro – quando scoprirono che eravamo italiani cominciarono ad urlare anche: - Canale 5, Italia 1 - si doveva fare un vero e proprio slalom per non urtarli, ma loro continuavano a circondarci e a proporci di acquistare le loro cose. Riuscii a raggiungere una recinzione da dove potei fare qualche foto. Un signore egiziano con il suo caratteristico abito: una specie di camicia lunga fino ai piedi che loro chiamano kalabeja, cercò di prendermi la macchina fotografica dalle mani, io non la mollai e lui per fortuna lasciò perdere. Ma non voleva rubarmela, voleva farmi delle foto, a me e Manuela, magari con alle spalle i colossi di Menmone. Naturalmente a pagamento. Un euro a foto. Tornammo al pullman sempre circondati da venditori, dovevamo aspettare che fossimo arrivati tutti, ma la porta del pullman fu chiusa per impedire ai venditori di salire. Finalmente arrivarono tutti. Nagy ci contò e potemmo ripartire. Prossima tappa il tempio di Medinet Habu dedicato al Faraone Ramsete III. Poco distante, cinque minuti di pullman. Era ancora molto presto, prima delle otto. Il tempio era praticamente deserto. Non c'erano nemmeno i venditori. Nagy ci incitò a muoverci: - yalla, yalla!! non succede quasi mai di trovarlo così deserto. - Entrammo nel tempio: era gigantesco. Una prima facciata chiamata “Pilone”, tutto scolpito con scene di battaglie, il faraone Ramsete III che uccideva i nemici. Tutto pieno di geroglifici, scolpiti molto profondi. Era questa la caratteristica di quel tempio. Nagy ci spiegò che erano così profondi per evitare di essere modificati da altri Faraoni. Oltrepassato il primo pilone si entrava in un grande spazio, dopo di che un secondo pilone. Entrati nel secondo pilone ci si trovava in una specie di piazza circondata da un portico sorretto da enormi colonne sempre tutte scolpite con scene di guerra, di caccia, di offerte agli Dei, completamente scolpito in tutti gli spazi disponibili, non solo le colonne ma anche le pareti, i soffitti, dappertutto. Il Faraone Ramsete III che vince sul popolo del mare e taglia le mani e il pene dei nemici per assicurarsi che non potranno più nuocere e nemmeno riprodursi. Il massimo della sconfitta. Intorno alle scene rappresentate centinaia di iscrizioni geroglifiche che raccontano e descrivono le scene di ramsete III che vince sul popolo degli Ittiti, che viene incoronato faraone dal Dio Amon e gli viene data la chiave della vita, Ankh. Dappertutto pieno zeppo di cartigli di Ramsete III e geroglifici che raccontano chissà quali avventure. All'interno del tempio alcuni sorveglianti tentavano di farci vedere qualche luogo nascosto, qualche particolare, naturalmente in cambio di un euro. Uscimmo dal tempio proprio mentre stava arrivando il gruppo di Nady con i suoi 40 turisti. C'erano delle bancarelle dove Rosa acquistò un cappello di paglia, sotto la supervisione di Nagy che la aiutò nella contrattazione. Qualunque sia la merce in vendita, qualunque sia la cifra che viene chiesta è obbligatorio contrattare sul prezzo. È una specie di forma di rispetto. Se non tratti il prezzo non sei degno di rispetto. Alla fine, se spunti un buon prezzo, anche se sei riuscito ad abbassarlo notevolmente, il venditore sarà contento lo stesso, perché ha avuto a che fare con una persona degna di rispetto, e magari si è anche divertito. Poi ha venduto qualcosa e sicuramente ci ha guadagnato. Appena fummo tutti sul pullman ripartimmo. Destinazione la valle dei Re. Era il luogo che conoscevo maggiormente. Li c'era la tomba di Tut Ankh Amon della XVIII dinastia, il Faraone bambino. Conoscevo quasi tutta la storia: era il settimo figlio di Akhenathon III, quello che volle imporre un unica religione su tutto l'Egitto, e di Nefertiti, la bella regina, si dice che fosse stata la più bella donna della storia dell'Egitto. La leggenda, dice che in realtà non era figlio naturale, ma fu adottato poiché la coppia aveva avuto solo figlie femmine e loro dovevano avere un maschio al quale lasciare il trono. Questo non piacque alle sorelle. Alla morte di Akhenathon III Tut Ankh Amon salì al trono, all'età di nove anni. All'inizio si chiamava Tut Ankh Aton, in onore del padre divinizzato al Dio Aton. Successivamente cambiò il nome in Tut Ankh Amon dopo che riportò nuovamente la religione divisa nelle due grandi regioni dell'Alto e Basso Egitto. Fu quindi divinizzato al Dio Amon. Il suo nome significa letteralmente “immagine vivente di Amon” spesso nel suo cartiglio il nome veniva scritto Amon Tut Ankh, mettendo il nome del Dio Amon prima di tutto, in una forma di rispetto. Ma il giovane faraone aveva gravi problemi di salute, zoppicava e doveva camminare con un bastone. Morì all'età di 19-20 anni dopo aver regnato solo per dieci. Alcuni studiosi sostengono anche che fu vittima di una congiura organizzata dalle sorelle e dai sacerdoti devoti al Dio Aton. La sua tomba fu scoperta il 4 novembre del 1922 da un archeologo inglese, Howard Carter, con le sovvenzioni di Lord Carnavon. Famosa la leggenda della maledizione del Faraone. Sembra che sulla pietra che chiudeva l'ingresso ci fosse scritto che chiunque avesse profanato la tomba sarebbe morto di morte violenta. In effetti, sia Carter che Carnavon morirono poco tempo dopo di una malattia sconosciuta, cosi pure molti loro parenti e anche molti altri: operai e addetti ai lavori. Coincidenza?? la tomba di Tut Ankh Amon, ad oggi, è stata la penultima ad essere scoperta è siglata KV62 (KV significa King valley) ed è stata l'unica trovata ancora intatta, al suo interno è stato trovato tutto il corredo funerario, il trono d'oro, il carro con il quale doveva viaggiare nel regno dei morti, cibo, abiti e molte altre cose, esattamente come l'avevano lasciata i costruttori più di 4000 anni prima.. I tombaroli non hanno mai profanato la sua tomba, sarà stato per paura della maledizione del Faraone. O forse semplicemente non è mai stata trovata. Quando arrivammo alla valle dei Re faceva già molto caldo. Saranno state circa le 10. Nagy ci disse che non potevamo fare foto in tutta la valle e che dovevamo lasciare le macchine fotografiche sul pullman. Peccato. Lo sapevo, lo avevo letto da qualche parte. Ma speravo non fosse vero!!scendemmo dal pullman. Solito assalto di venditori di tutti gli oggetti possibili e immaginabili. Raggiungemmo faticosamente una palazzina bassa con la biglietteria e un grande atrio. Al centro un plastico in materiale trasparente ( plexiglass? ) di tutta la valle compreso le tombe che si potevano vedere abbassandosi sotto al plastico. Su una parete una televisione trasmetteva un documentario con dei filmati d'epoca, della scoperta della tomba di Tut Ankh Amon, faceva vedere il momento in cui furono portati fuori i vari oggetti, il carro, il trono e il grande sarcofago con la famosa maschera d'oro. Nagy ci consegnò i biglietti e ci incamminammo verso la valle. I biglietti valevano per la visita di tre tombe a scelta, ma non quella di Tut Ankh Amon, per quella si doveva pagare un supplemento di 100 lire egiziane, circa 13 euro. Io quasi quasi volevo fare anche quel biglietto ma Nagy mi sconsigliò. Disse che nella tomba non c'era praticamente più niente, erano solo delle stanze vuote. L'unica cosa che c'era era il sarcofago vuoto. Ma non meritava andare a vederla. Mi convinsi, ancora non so perché ma mi convinsi. Attraversammo un mercatino con tante mercanzie colorate... e una guardia armata di Kalašnikov. Appena fuori c'erano in servizio delle specie di trenini, dei trattorini e diversi vagoncini con dei divanetti per 8 persone, anche lì i venditori ci assalirono e salirono anche sul trenino, aggrappati da un lato e per tutta la breve corsa, saranno stati 500 metri, continuarono a proporci i loro prodotti. Nel divanetto difronte a me e Manuela, c'erano Dana e Giada, due giovanissime ragazze del nostro gruppo, anche molto carine. Uno dei venditori, un ragazzo giovane pure lui, per tutti i 500 metri, continuò a proporre molto insistentemente i suoi prodotti in cambio di un bacio. Smise solo quando il trenino si fermò e scendemmo per andare a vedere le tombe. Ci incamminammo per una strada in salita per raggiungere una delle tombe più in alto della valle: la tomba del Faraone Seti II. Appena fuori dalla tomba c'era una tettoia dove ci sedemmo e dove Nagy ci spiegò velocemente la storia di quella tomba. Il Faraone divinizzato al Dio Seth, Dio della siccità e del cattivo tempo, Dio del male. Colui che uccise suo fratello il Dio Osiride e lo fece a pezzi. Anche Seti II regnò molto giovane, salì al trono all'età di 10/12 anni e regnò solo per 10. Quando morì la sua tomba non era ancora pronta. Fu completata sommariamente in fretta e furia ma molti disegni rimasero da colorare. La chiamano “l'incompiuta”. Entrammo nella tomba. All'ingresso, su entrambi i lati, era raffigurata la Dea Nut, Dea del cielo, raffigurata come una donna con le braccia simili ad ali di uccello. Le ali rivolte verso l'interno della tomba in segno di protezione. Un breve corridoio in discesa disseminato di raffigurazioni di offerte alle varie divinità. Molti solo abbozzati. Continuammo a scendere e trovammo un altra stanza più grande con delle colonne. Subito dopo raggiungemmo la camera del sarcofago. Il sarcofago era ancora lì. Piuttosto piccolo. Semiaperto con delle travi di legno sotto al coperchio. Sul fondo uno specchio che riflette l'immagine dell'interno del coperchio, dove è raffigurata la Dea Maat. La mummia del faraone non c'era più. Ma quando c'era aveva sempre di fronte l'immagine della Dea dell'ordine cosmico e della giustizia. Uscimmo all'aperto, ci assalì un gran caldo. Dentro alla tomba era molto più fresco. Ripercorremmo la strada in discesa verso un'altra tomba. Sui lati della strada molte aperture di tombe di altri Faraoni. Ne sono state scoperte 63, l'ultima nel 2002. ci fermammo davanti all'ingresso della tomba del Faraone Siptah. Il suo nome significa, figlio di Ptah. Il Dio delle tenebre e dell'oscurità. A volte il nome del Faraone è Merenptah Siptah. Figlio di Seti II. la sua tomba è molto simile a quella del padre. Ai lati dell'ingresso la raffigurazione della Dea Nut con le ali rivolte all'interno. Tutti i disegni lungo i corridoi sono protetti da delle lastre di vetro. Non si potevano nemmeno toccare. Il soffitto tutto completamente disegnato con la raffigurazione della Dea Nut con le ali spiegate. Lungo il corridoio si trova una stanza con delle colonne, o quello che ne resta. Continuando a scendere si trova un'altra stanza e poco dopo una rientranza sulla parete sinistra. Subito dopo la stanza del sarcofago. Una stanza molto grande, con delle colonne all'entrata il sarcofago molto più grande del precedente e, cosa particolare, posizionato trasversalmente all'ingresso. Per ultima Nagy ci consigliò di visitare la tomba del Faraone Ramesse IV perché è quella meglio conservata. - Sembra sia stata completata ieri - disse Nagy. Aveva ragione. Il lungo corridoio era praticamente intatto. Completamente disegnato di tutti i colori possibili. Il soffitto tutto disegnato di blu, con le stelle e la Dea Nut con le ali spiegate. Sulle pareti la famosa scena della cerimonia della pesatura del cuore. Su di uno dei piatti della bilancia era raffigurato il cuore del defunto, sull'altro una piuma. Se dopo aver risposto alle 42 domande fatte da altrettanti giudici, il cuore fosse risultato più leggero della piuma significava che il defunto non aveva commesso peccati ed aveva quindi accesso al paradiso, al Duat. Se risultava più pesante allora doveva andare all'inferno e il suo cuore con tutto il suo corpo veniva dato in pasto alla Dea Ammit, rappresentata come uno stano animale: la testa di coccodrillo, le zampe anteriori e il corpo di leonessa, le zampe posteriori di ippopotamo. Il tutto sotto la supervisione del Dio Anubi, il Dio dei morti rappresentato con corpo umano e testa di sciacallo, che accompagnava il defunto e ascoltava la sua confessione, dal Dio Toth: protettore degli scribi, Dio della matematica, dell'architettura e della sapienza, raffigurato con corpo di uomo e testa di uccello ibis. Che controllava e annotava il peso. Infine della Dea Maat, dell'ordine cosmico e della giustizia, che forniva la piuma per la bilancia. Scendemmo lungo il corridoio a bocca aperta, davanti a quella meraviglia di colori e iscrizioni. Una volta qualcuno mi disse che la definizione di “arte” è da attribuire a quelle opere, di qualsiasi tipo si trattino, che continuano a provocare emozioni nel tempo. Se ascoltando la primavera di vivaldi, la marcia trionfale dell'Aida di Verdi o stairway to haven dei led zeppeling; oppure guardando l'annunciazione di Caravaggio o l'urlo di Munch, i mangiatori di patate di Van Gogh o la pietà di Michelangelo; leggendo la poesia della pace di Pablo Neruda o “considero valore” di Erri De Luca; ci emozioniamo e continuiamo ad emozionarci ogni volta, allora possiamo definire queste cose “opere d'arte”. Scendevo lungo quel corridoio con gli occhi spalancati verso quei soffitti completamente disegnati e colorati di colori ancora vivaci dopo 4000 anni, quelle pareti completamente occupate di disegni incredibilmente belli, quello che provai non saprei definire se fu emozione o meraviglia o chissà cos'altro. So che i miei occhi si inumidirono e una sola parola mi si materializzò nella mia testa, un unica definizione poteva solo minimamente rappresentare una tale meraviglia: “arte”. Niente avevano da invidiare alle opere di Giotto o di Michelangelo. Vissuti 3500 anni dopo. Nessuna stanza intermedia, alla fine del corridoio una grande stanza con il sarcofago. Di granito grigio, a forma di cartiglio regale, immenso, maestoso, enorme. Il più grande di tutti i sarcofagi della valle dei re e probabilmente di tutto l'Egitto. Anche la stanza del sarcofago completamente disegnata in ogni sua parte, in qualsiasi angolo disponibile. Scene di offerte agli Dei, la Dea Nut con le ali spiegate e tantissime iscrizioni geroglifiche. Sul soffitto della camera del sarcofago è raffigurata ancora la Dea Nut, Dea del cielo, che ingoia il sole la sera e lo partorisce al mattino. Arrivammo tardi al trenino e scendemmo a piedi verso l'ingresso della valle. Dieci minuti. Fummo di nuovo assaliti dai venditori di ricordi, ma riuscimmo a schivarli e a rifugiarsi sul pullman. Prossima tappa una bottega di artigiano dell'alabastro. Dovevamo comprare qualcosa. Il pullman passò vicino al famoso tempio di Hatshepsut. Non era prevista la visita ed era anche pericoloso avvicinarsi. Poco tempo prima c'era stato un attentato ed erano morti anche alcuni turisti. Figlia maggiore del re Thutmosis I, sposata al fratellastro Thutmosis II e nutrice del fratellastro-nipote Thutmosis III, Hatshepsut riuscì in un modo o nell'altro a sfidare la tradizione e a installarsi saldamente sul trono divino dei Faraoni. Fu l'unica presenza femminile nella storia ad essere rappresentata, sia come donna che come uomo, vestita con abiti maschili, dotata di accessori maschili e addirittura della barba finta tradizionalmente esibita dai faraoni. Nonostante durante il suo regno l'Egitto prosperasse, dopo la sua morte, si cercò con ogni mezzo di cancellare il suo nome e la sua immagine. I monumenti di Hatshepsut furono abbattuti o usurpati da altri, i ritratti distrutti e il nome cancellato dalla storia e dall'elenco ufficiale dei re egizi. Ma qualcosa è rimasto. La regina Hatshepsut è il monarca di sesso femminile più famoso che l'Egitto abbia mai avuto in tutto il corso della sua storia. Ma non è stata la prima, e non sarà l'ultima. La storia dell'antico Egitto finirà con la morte della famosa regina Cleopatra VII. Arrivammo alla “casa dell'alabastro”. Fuori c'erano delle persone che con strumenti molto pittoreschi facevano vedere come veniva lavorato. Dentro era un negozio. Nagy ci spiegò che le statuette che erano in vendita erano di pietra “vera”, ce lo dimostrò prendendo uno scarabeo sacro piuttosto grande e lasciandolo cadere sul pavimento. Produsse un rumore sordo ma rimase intatto. Nagy ci disse anche di non farlo a casa... potrebbe rompersi il pavimento. Comprammo, dopo lunghe trattative, un grosso vaso e due scarabei sacri ( di gesso ) in omaggio. Solo successivamente considerammo che dovevamo tornare in aereo e non sapevamo come trasportare quel vaso. Le escursioni quel giorno erano finite. Tornammo alla motonave sudati fradici. Appena entrati ci offrirono un panno di spugna fresco imbevuto di qualche liquido profumato e un bicchiere di limonata a temperatura ambiente. La cosa fu molto gradita da tutti i partecipanti. L'organizzazione non prevedeva nessuna altra escursione pomeridiana. Era prevista la partenza della motonave verso le 17,00/ 17,30. Pomeriggio libero. Dopo pranzo io e Manuela scendemmo a terra per una brevissima passeggiata lungo le rive del Nilo. Non più di mezz'ora. La motonave partì con circa un'ora di ritardo, all'incirca alle 18,30. Verso mezzanotte era previsto l'arrivo alla chiusa di Esna. Consigliavano di assistere. Mi ero addormentato, ma verso mezzanotte mi svegliai e guardando dalla grande finestra della camera vidi una parete di cemento armato e la motonave che era praticamente ferma. Ci siamo. Andai sulla terrazza superiore della motonave, era buio, ma qualcosa si riusciva a vedere anche se oramai era praticamente già passata dalla chiusa. Riuscii a vedere, e fotografare, due grandi ante di un cancellone semi sommerse che si aprivano per far passare la motonave. Il mattino successivo ripartimmo. Sul fiume c'erano diverse barchette con venditori che buttavano sulla nave le loro mercanzie arrotolate in un sacchetto di nylon, contrattando e discutendo sul prezzo. Molto bravi: riuscire a stare in piedi su una barchetta e buttare un oggetto anche piuttosto leggero ad una altezza di una decina di metri! Ho immaginato che si allenassero in qualche modo... Una di quelle barchette si attaccò alla motonave con una corda e il venditore, che si chiamava Abdul, ci seguì per molto tempo riuscendo a vendere diversi prodotti. Aveva principalmente tovaglie e abiti caratteristici egiziani. Anche io e Manuela comprammo alcuni articoli: una tovaglia stampata con anatre e due vestiti per una festa in costume che doveva svolgersi di li a pochi giorni. Compreso un turbante in omaggio. 15 euro. In tarda mattinata raggiungemmo Edfu. Prossima escursione. Questa volta era di pomeriggio. Un caldo asfissiante. Scendemmo dalla motonave e ci fecero salire su dei calessini trainati da cavalli. Due per calesse. Nagy ci mise in guardia. -Non vi fidate di quello che vi possono dire, vi chiederanno soldi per il cavallo, che deve mangiare, che è incinta, anche se è un maschio, non vi fidate. Se volete dargli del denaro fate pure, ma loro sono già pagati. - il nostro cocchiere si chiamava Mustaphà, ci disse che aveva 24 anni, una moglie e due figli. Vestiva la solita kalabeja grigio scuro. Ci mostrò passando alcuni palazzi, l'ospedale, il comune, la banca. Parlava appena l'inglese ma riusciva a farsi capire. Non ricordo di aver mai visto una città con il traffico più caotico di quella: per le strade polverose di terra battuta, passavano a velocità incredibili mezzi di tutti i tipi: vecchie auto rugginose, ammaccate; camioncini carichi di canne da zucchero, di erba medica, di gente aggrappata; carretti trainati da cavalli o da somari; biciclette e motociclette a volte con tre o addirittura quattro persone sopra, tutti senza casco. Alcuni senza targa, alcuni con due targhe: una egiziana che sovrastava un altra probabilmente europea. Il colmo fu un rallentatore: non avevo mai visto niente di più inutile. Non eravamo molto tranquilli. Per qualche momento ho anche pensato che non ci avrebbe portato al tempio. Che ne sapevamo noi dov'era? Magari ci rapiva e chiedeva il riscatto al governo Italiano? Ma Mustaphà era un bravo ragazzo e ci portò a destinazione, come tutti gli altri. Arrivammo al tempio di Edfu: dedicato al Dio Horo, Dio di Behdet. Dio falco sdoppiato in Horus il Grande (Haroeris) e in Horus Bambino (Arpocrate). Figlio di Iside e Osiride, regnò sull'Egitto dopo la morte del padre. Tutti i faraoni sono considerati suoi discendenti. In un grande spazio con delle tettoie sostavano i calessi con i cavalli. Mustaphà mi chiese la macchina fotografica e fece due foto a me e Manuela seduti sul calesse. Due euro! Dovevamo ricordarci il numero del nostro calesse per il ritorno. Prima di arrivare all'ingresso del tempio fummo di nuovo assaliti dai venditori e dai gestori di un mercatino. Uno, un certo Adul, volle a tutti i costi rifilarmi un biglietto da visita e volle che gli promettessi che dopo la visita al tempio saremmo andati a vedere il suo banco. Entrammo nel tempio. Alcuni poliziotti armati di Kalašnikov stavano di guardia. Molto simile come struttura al tempio di Medineth Habu. Fuori dell'ingresso principale c'erano due enormi statue del Dio Horo, due grandi falchi in granito grigio. Quasi perfetti dopo 4000 anni!! il pilone completamente ricoperto di bassorilievi raffiguranti scene di vittorie su altri popoli e offerte agli Dei. Cosa stana: molte incisioni raffiguranti varie divinità erano state scalpellate perché non fossero riconosciute. Nagy ci spiegò che erano stati i cristiani a farlo, per impedire che fossero adorate delle divinità pagane. Intere raffigurazioni di vario genere completamente distrutte. Nella stanza più interna del tempio, il santa sanctorum, c'era ancora la barca sacra, una barca di granito scuro con un baldacchino al centro e la testa del Dio Horo sulla prua. Piccola, si e no 3 metri, con due grandi pali per trasportarla. Serviva per una specie di processione che veniva fatta una volta all'anno. Quando uscimmo dal tempio Adul era ad aspettarci e a ricordarci che avevamo promesso di visitare il suo banco. Manuela aveva una paura terribile. Non voleva andarci, ma io avevo promesso e quindi andammo, un po' impaurito anch'io, ma andammo. Ci fece vedere la sua mercanzia fatta di abiti, scarpe, tovaglie sciarpe, turbanti e milioni di altre cose. Infine comprammo una camicia bianca senza collo e con un taschino con ricamato due cartigli, che poi scoprii che erano del Faraone Tut Ankh Aton, al prezzo di 5 euro. Al ritorno sul calesse passammo davanti alla banca dell'Egitto. Avevo bisogno di fare un bancomat, ma non mi sembrò il posto più indicato. Rientrati sulla motonave partimmo per Aswan. Il viaggio continuò per tutta la notte. La mattina dopo era prevista l'escursione al tempio di Philae, o Iside, Dea dell'amore, che si trovava su un isoletta. Il tempio era stato spostato in seguito alla costruzione della prima diga di Aswan. Era rimasto semi sommerso. Nagy ci raccontò che una volta facevano le visite dentro al tempio con la barca. Nel pomeriggio visita alla diga di Aswan e alla casa delle essenze. Partimmo, prima in pullman fino ad un piccolo attracco, poi su una barchetta che trasportava una ventina di persone. Ci stavamo tutti giusti giusti. Nagy ci spiegò che sull'isola avremmo trovato come sempre molti venditori. Questi vendevano un particolare strumento musicale, vagamente simile ad un violino, non doveva costare più di un euro. Oltre alle solite cose di tutti: braccialetti, collane, camice, sciarpe, turbanti, bottigliette d'acqua fresca... arrivammo al tempio di Philae. Anche sull'attracco c'erano decine di venditori. Ormai ci avevamo fatto l'abitudine e riuscivamo a scansarli senza troppa difficoltà. Lo stesso Nagy ci aveva consigliato come fare: come se non ci fossero. Non è facile ma ci possiamo riuscire. Anche il tempio di Philae (o Iside) era dello stesso stile degli altri. Un po' più piccolo il pilone e il cortile interno. Purtroppo anche qui i cristiani avevano deturpato tutte le sculture e le raffigurazioni. Avevano anche scolpito delle croci copte sulle colonne. Era visibile il segno che aveva lasciato l'acqua quando il tempio era rimasto semi sommerso. Inoltre quando era stato “rimontato” sull'isola, avevano dovuto adattarlo alle dimensioni e non erano riusciti a ricostruirlo esattamente come prima. Una parete nel cortile delle colonne era più corta di alcuni metri. Ma questo non toglieva niente alla bellezza del posto. Finimmo la visita nel solito mercatino dove un custode o guardiano o chissà cosa, colse un fiorellino e lo offrì a Manuela, si fece fotografare con lei e volle un euro. Al mercatino comprammo una bustina di zafferano, almeno quello ci disse il venditore. Tommaso non stava bene: aveva alcuni problemi intestinali e Nagy gli comprò un medicinale specifico. Nel mercatino sull'isola gli fece bere del tè alla menta. Il giorno dopo stava molto meglio. Tornammo al porticciolo e proseguimmo per la visita alla diga di Aswan. L'Egitto in quel periodo era in mano all'esercito, non c'era un presidente della repubblica, le prime elezioni libere della storia del paese si sarebbero svolte solo alla fine di maggio. Per le strade di Aswan si incontravano spesso gruppi di militari armati, alcuni protetti dietro a spesse lastre di ferro, numerosi posti di blocco con le transenne di traverso alla strada e soldati armati di guardia. Addirittura, in tre o quattro posti specialmente vicino alla nuova diga, anche dei carri armati. La diga è una immensa costruzione di cemento armato, lunga 3600 mt. , con uno spessore alla base di 980 e un'altezza di circa 100. A valle c'è una grande centrale elettrica che fornisce non so quanti megawatt. Una cosa veramente immensa. A monte inizia il lago Nasser, dal nome del presidente che volle costruire la diga, in collaborazione del governo sovietico. All'inizio della diga c'è un grande monumento che ricorda la collaborazione tra Egitto e Unione Sovietica. Il monumento rappresenta una mano rivolta verso l'alto. La mano è in Egitto un segno di protezione: su tutte le imbarcazioni, motonavi, pullman, auto, case, negozi, ecc. c'è sempre una manina aperta verso l'alto. Nagy disse che il monumento voleva dire: “ci hanno dato una mano”. Provammo a fare due passi in un giardino di palme e fiori colorati ma un soldato ci bloccò subito, nemmeno 10 metri. Non era permesso. Ci rassegnammo a fotografare la diga, la centrale elettrica e il lago Nasser particolarmente basso in quel periodo. Nagy ci spiegò che il lago Nasser è lungo 500 km, 300 dei quali sono in Egitto, gli altri 200 in Sudan. Che sono stati spostai 18 templi perché non rimanessero sommersi. Che la diga ha dato tanti benefici ma anche qualche problema. Tra i benefici, oltre alla produzione di elettricità, c'era il fatto che il Nilo a valle della diga ha una portata d'acqua costante, e che in questo modo potevano fare anche tre raccolti di grano all'anno. Tra i problemi c'era il fatto che non arrivava più il famoso “limo” ossia il concime per le coltivazioni, che avevano dovuto spostare tutti quei templi e anche diversi villaggi nubiani. Quello che saremmo andati a vedere era appunto un villaggio che il governo egiziano aveva dovuto ricostruire dopo la costruzione della diga. Tornando ci fermammo alla “casa delle essenze”. Un luogo veramente stupendo. Da li provengono le maggiori essenze dalle quali poi vengono estratti tanti altri prodotti. Dai famosi profumi francesi, ce ne rammentarono diverse marche tutte molto conosciute dalle donne del gruppo, a vari prodotti curativi per massaggi, infusi, e tante altre cose. C'erano essenze per tutti i gusti e necessità. Un giovane laureato in letteratura italiana (citando Dante e Petrarca ) oltre che in chimica, ci spiegò come vengono estratte le essenze e il loro utilizzo. Alla fine comprammo diverse bottigliette per curarci dei nostri abituali malanni e per profumarci al fior di loto. Tot 240 euro. Ma ne valeva la pena. Appena fuori sul marciapiede prima del pullman fummo di nuovo assaliti dai venditori. Queste erano principalmente donne anche piuttosto anziane. Vendevano principalmente segnalibri di papiro, finto. Avevano “bisogno” di vendere, una vera e propria necessità. Non importava niente di quale prodotto si trattasse, fossero segnalibri o scarabei. Agitavano i loro prodotti davanti alle nostre facce e ci imploravano di acquistarli. Gli occhi. Gli occhi di quelle donne parlavano una lingua universale. Dettata dalla grande miseria, dalla fame, dalla necessità di qualsiasi cosa per la vera e propria sopravvivenza. Comprammo tre o quattro segnalibri per un euro poi scoprimmo che il costo di un euro era per venti segnalibri. Manuela voleva quasi farsi dare gli altri ma la fermai, gli dissi che andava bene così, che se avessi potuto gli avrei dato anche mille euro per un segnalibro, un coccodrillo finto o un braccialetto. Glielo dissi con gli occhi, nella stessa lingua di quelle donne. E lei capì. Nagy fece come al solito da tramite supervisionando le trattative. Rivolgendosi alle donne in egiziano e a noi del gruppo in italiano, contando attentamente i segnalibri e i soldi. Infine rivolgendosi alle donne si imbrogliò e chiese in italiano chi di loro non avesse venduto ancora niente. Mi venne in mente un libro di Terzani che avevo letto: parlava di un mercato in Afganistan. Un commerciante di stoffe, quando aveva venduto quello che gli bastava per se e la sua famiglia, chiudeva e se ne andava a casa. Se un altro cliente gli si rivolgeva lo avrebbe indirizzato ad un altro banco vicino, poiché anche l'altro commerciante doveva campare la sua famiglia. Tornammo alla motonave per il pranzo. Ci accolsero come al solito con i piccoli asciugamani freschi e profumati e la tazza di limonata. Nel pomeriggio partenza per l'isola di Elefantina, lo sci sulla duna di sabbia e la visita al villaggio nubiano. Al ristorante volli provare ad assaggiare uno strano frutto: una specie di pera, bianca con dei piccoli semi neri. Al cameriere riuscii a chiedere il nome, mi disse che si chiamava “guapha”. Io la chiamai peraharaba. Il primo tentativo non risultò incoraggiante, non era un buon sapore. Nagy vedendomi mi spiegò il modo di mangiare la guapha. Si doveva tagliarla a fette sottili, metterci sopra zucchero e limone. Un limone caratteristico egiziano, molto piccolo e con un sapore particolare. Con quella combinazione la peraharaba era veramente una delizia. Il mio vicino di tavolo, Pier, si appassionò alla peraharaba e tutti e due, alla fine dei pasti ce ne facevamo delle grandi scorpacciate. Nel pomeriggio partenza per l'escursione al villaggio nubiano. Prima in pullman e poi con una barchetta. Chiesi a Nagy dell'isola di Elefantina. Chiamata così per la forma di alcune rocce che ricordano appunto un elefante. A me ricordava la costa della Sardegna, tutta di granito scolpito dal vento, anche Rosa, che veniva da Alghero, confermò che sembrava di essere in Gallura. Avevo letto che sull'isola c'erano i resti di un tempio esattamente uguale al tempio di Salomone a Gerusalemme. Nagy mi confermò ma mi disse che non c'era rimasto quasi niente, solo qualche colonna e dei muri quasi completamente distrutti. Secondo la leggenda, la famosa “arca dell'alleanza” costruita dal popolo ebraico durante l'esodo biblico, nel deserto del Sinai, che doveva contenere le tavole della legge dettate direttamente dal Dio Javè (che significa: colui che è) a Mosè, fu conservata per molti secoli al tempio di Salomone a Gerusalemme. Poi se ne persero le tracce, ma sembra che per ordine della regina di Saba, fu portata sull'isola di Elefantina dove venne costruito un tempio esattamente uguale e dove doveva essere conservata. Sembra che ci rimase per qualche secolo. Dopo di ché se ne persero nuovamente le tracce. Il libro che avevo letto affermava che dopo innumerevoli peripezie, l'arca si trovava in Etiopia nella chiesa cristiana copta di S. Maria di Sion nella città di Axum. Un altro posto che vorrei visitare. Un giorno. La barchetta partì regolarmente e ci dirigemmo verso l'isola di Elefantina, passammo vicino ad un grande albergo. Nagy ci disse che in quel posto avevano girato il film “assassinio sul Nilo” tratto da un romanzo giallo dei Agata Christie. Il film lo avevo visto ma quell'albergo non me lo ricordavo. Mi riproposi di rivederlo una volta tornati a casa. Raggiunsero la nostra barchetta dei ragazzini che galleggiavano su delle tavolette e si spostavano con dei pezzi di legno in mano. Nagy ci disse che erano cantanti. Cantavano canzoni per i turisti. - che canzoni cantano? oh sole mio?- Chiesi. -magari – rispose Nagy, Uno di questi ragazzini si aggrappò alla nostra barchetta e cominciò a cantare. “quel mazzolin di fiori” Nagy disse al ragazzino che eravamo spagnoli e lui cominciò con “Porompompòn” esattamente come fosse un giradischi. Naturalmente in cerca di soldi o altre offerte. Devo dire però che il ragazzino cantava veramente bene, aveva una bella voce limpida e potente. Continuando Nagy ci mostrò il giardino botanico con le famose palme bianche. Stavamo navigando contro corrente verso il villaggio nubiano, nei pressi della prima cataratta del Nilo, quando vedemmo in lontananza avvicinarsi qualcosa di giallo. Tirava vento e la temperatura era decisamente abbassata. Nagy cominciò a preoccuparsi. Era in arrivo una tempesta di sabbia. Nel giro di pochi minuti fummo tutti avvolti da una sabbia sottilissima. Non potevamo continuare. Ci fermammo in una delle tante isolette. Nagy comunicò con Ahjaraf e con altri dell'organizzazione per decidere sul da farsi. Tutta l'aria era diventata gialla, tutto era intriso di una sabbia sottilissima, della consistenza del borotalco. La macchina fotografica cominciò ad accusare e alcune funzioni non funzionavano correttamente. Nagy era continuamente al telefono con Ahjaraf. Fummo tutti presi da un leggero bruciore agli occhi e qualche colpo di tosse. Infine fu deciso che era meglio se tornassimo alla motonave. Risalimmo quindi sulla barchetta e tornammo al porticciolo dove c'era ad attenderci un pullman che ci riportò sulla motonave. Il guidatore della barchetta chiese qualcosa a Nagy , dopo aver avuto il suo consenso scoprì una panca centrale della barca dove erano esposti molti suoi prodotti. In vendita naturalmente. Comprammo due collanine, 2 euro. Il giorno seguente era in programma la visita al tempio di Abu Simbel. Avevamo anche noi deciso di fare quell'escursione. Dovevamo partire alle tre del mattino. Tutto il programma dovette essere cambiato. Il mattino seguente, tempo permettendo, avremmo completato la visita al villaggio nubiano e alla duna. Nel pomeriggio il viaggio ad Abu Simbel. Anche meglio. L'organizzazione dovette modificare tutti i suoi piani, prendere accordi con la polizia per il viaggio ad Abu Simbel. Ricontattare e riorganizzare tutto. Devo dire che furono veramente molto efficienti. Il mattino dopo ripartimmo per sciare sulla duna e il villaggio nubiano. La tempesta di sabbia si era placata, l'aria era però molto rinfrescata ma era ancora un po' gialla. Ci voleva la maglia. Come da programma: Ci portarono su per la prima cataratta del Nilo. C'era un cartello che la indicava, in arabo e in inglese. L'unica rimasta. Le altre quattro sono sommerse dal lago Nasser. Un altro cartello indicava di stare attenti ai coccodrilli. Passammo vicino ad un albero con le foglie che si ritraevano toccandole. Attraccammo ad una spiaggetta da dove salimmo molto faticosamente verso la cima di una duna di sabbia. Camminare sulla sabbia è molto faticoso, i piedi affondano e ad ogni passo si torna quasi indietro. Riuscii a sfruttare le impronte di Massimo che camminava davanti a me. Mettendo i piedi nelle sue impronte la sabbia teneva e potevo salire molto più agevolmente. In cima alla duna c'erano delle rocce. Tirava un gran vento. Ma la sabbia rimaneva abbastanza ferma. Salimmo quasi tutti quelli del nostro gruppo. Rimasero solo due o tre. E Nagy che lo aveva fatto tante volte... Ero stato qualche volta a sciare, molti anni addietro mi ero appassionato e andavamo spesso. Avevo imparato, non molto, ma me la cavavo abbastanza bene. Sciare è una di quelle cose che una volta imparate rimangono, come andare in bicicletta o nuotare. Ma sciare sulla duna di sabbia è completamente diverso. Forse ci sarebbero serviti degli sci invece che le scarpe. Comunque scendemmo da quella duna mimando i gesti degli sciatori ma con scarsi risultati. In ogni caso arrivammo in fondo. Le scarpe completamente zeppe di sabbia. Ce le togliemmo e le svuotammo, ma non fu sufficiente. Anche quando tornammo sulla motonave la sera, avevamo ancora sabbia nelle scarpe. Raggiungemmo il villaggio nubiano. Non sapevo cosa ci avrebbe aspettato. Potevamo scegliere tra quello “antico” e quello “moderno” naturalmente scegliemmo quello antico. Il gruppo di Nady aveva scelto quello moderno. È straordinario come le persone in modo apparentemente casuale e spontaneo si raggruppino secondo le loro idee, o le loro preferenze e i loro gusti. Nel nostro gruppo fummo tutti concordi nello scegliere il villaggio “antico” non ci fu nemmeno uno che avrebbe preferito diversamente. L'altro gruppo aveva scelto il villaggio “moderno”. Nessuno del nostro gruppo sarebbe stato a suo agio nel gruppo di Nady. la barchetta approdò ad una spiaggetta verde. Piantarono un pezzo di ferro in terra per legarla e ci fecero scendere. Poco distante stavano pascolando delle pecore, dei dromedari e dei somari. Sembrava di vivere in un film, un documentario sulle abitudini dei popoli aborigeni. Ci accolsero delle persone del villaggio. Un signore distinto, che io immaginai il sindaco, nella sua caratteristica kalabeja grigia, che forse era un capo della comunità. E altri due signori, sempre vestiti con la loro kalabeja ma di diversi colori e con un bel turbante in testa. Ci accompagnarono per un sentiero fino al villaggio, poco distante. Trovammo subito un carretto trainato da un somaro con scritto: “taxi”. Nagy ci disse che quello era il taxi collettivo del villaggio. Probabilmente solo per turisti. Arrivammo ad una piazza dove c'erano delle porte di ferro tipo campo di calcio. Nagy ci disse che quello era lo stadio. In quel momento era attraversato da un gruppo di somari e pecore. E non c'era un filo d'erba. Attaccate a una palma c'erano le solite giare con acqua. Nagy, traducendo le parole del “sindaco”, ci chiese se qualcuno aveva sete. Rimanemmo tutti stupiti. Anche Nagy che ce lo aveva chiesto. Ma doveva chiederlo, si capiva dal tono di voce con cui aveva parlato. Manuela che era li vicino sbloccò la situazione facendosi soltanto bagnare le mani per rinfrescarsi. Anch'io feci lo stesso. L'acqua era fresca e mi bagnai anche la faccia molto piacevolmente. Proseguimmo e incontrammo una costruzione che Nagy ci indicò come “l'ospedale”. Era chiuso, l'unico medico veniva solo una volta a settimana. Ci portarono quindi a vedere l'asilo. In una stanza colorata di azzurro, sempre con il tetto di paglia, c'erano una ventina di bambini e bambine molto piccoli, meno di tre anni, come da noi. Avevamo portato per l'occasione, quaderni, matite colorate e penne che Elena distribuì ai bambini. Nagy ci aveva detto che era preferibile regalare queste cose invece di caramelle o denaro: le caramelle fanno male ai denti e loro non hanno molta dimestichezza con spazzolini e dentifrici, inoltre è molto difficile trovare dentisti. Il medico del villaggio per esempio è presente solo un giorno a settimana, e non è un dentista. Anche regalare il denaro non è una buona cosa perché i bambini lo portano ai loro genitori che, visto che portano denaro, non li mandano a scuola. Ed è estremamente importante per la crescita del paese che la popolazione sia istruita. Un popolo ignorante si può governare facilmente e gli si può far credere qualsiasi cosa. Pensai alle parole di Antonio Gramsci: istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza! Fuori dalla porta di alcune case c'erano delle donne che stavano preparando chissà cosa. Vedendoci si coprivano la faccia con i loro veli. Decidemmo tutti di comune accordo e quasi senza parlarci, che non avremmo tentato di fare foto a quelle donne e a nessuno che non volesse. Entrammo in dei piccoli vicoli in mezzo a costruzioni fatte di mattoni di fango. Alcuni somari girellavano tranquillamente. Arrivammo in una piazzetta dove c'erano dei bambini. Il “sindaco” ne prese uno in braccio e si fece fotografare. Anche noi ci avvicinammo e ci fotografammo vicino a quei bambini. Poi entrammo in una delle case. Le porte delle case erano tutte aperte, c'era la porta ma senza serrature. Sono quasi tutti parenti, si scambiano cibo e altre cose anche senza chiederselo, come se fosse un'unica famiglia. Nagy ci indicò un “forno” per fare il pane. Ci spiegò che mettevano l'impasto su delle pietre rotonde, ce n'erano diverse sopra al forno, e lo lasciavano a lievitare fuori all'aperto, al sole. Poi lo cuocevano in quel forno di fango secco. Compresi tutti gli insetti che nel frattempo avevano visitato l'impasto. Scherzando lo chiamò il famoso “pane moscato”. Al centro della casa c'era una stanza più grande, con il pavimento in pendenza, senza il tetto, solo delle foglie di palma per l'ombra. Al centro della stanza c'era una specie di vasca con una rete per coperchio. Guardai dentro. C'erano quattro o cinque coccodrilli piccoli, il più grande sarà stato circa un metro. Poco distante, appoggiata ad una parete c'era un altra piccola vasca. Li dentro c'erano dei coccodrilli ancora più piccoli, lunghi 40-50 cm. Il “sindaco” prese uno dei coccodrilli piccoli e gli mise un laccio intorno alla bocca. Poi lo mise in braccio ad una delle ragazze del gruppo. A turno prendemmo tutti in braccio quel piccolo di coccodrillo. È un animale straordinario, uno dei pochi rettili sopravvissuti alla grande estinzione dei dinosauri,165 milioni di anni fa. Un lucertolone con una grossa bocca. Sono abbastanza abituato a tenere in braccio animali di diverso tipo, ma tenere un coccodrillo fa uno strano effetto. Me lo immaginavo con una corazza robusta, dura, invece era molto soffice e dava un'idea di delicato. Avevo paura di fargli male. Forse perché era molto piccolo. Non so che età potesse avere, ma i coccodrilli adulti possono raggiungere anche 5 metri di lunghezza e quello era si e no 50 centimetri. Praticamente un bambino. Faceva un gran tenerezza e mi dispiaceva che che non potesse nuotare liberamente nel Nilo. Nel frattempo ci avevano preparato il tè alla menta. Che era veramente buono, caldo ma estremamente dissetante, anche se non era una giornata particolarmente calda. Dopodiché ci fecero entrare in una stanza dove c'era il solito mercatino di collane, braccialetti e tanti altri oggetti. Fatti gli acquisti d'obbligo, ci riaccompagnarono alla barca. Raccolsi due sassi da portare a casa, uno per me e uno per un mio amico che me lo aveva chiesto. Strana richiesta pensai, poi riflettendoci mi sembrò una cosa estremamente bella: portarsi a casa un pezzettino della terra che hai visitato. Ogni volta che quel sasso mi capiterà tra le mani mi tornerà in mente il villaggio nubiano, il “sindaco”, i bambini dell'asilo, i coccodrilli e il buon sapore del tè alla menta. Salutammo i nostri accompagnatori molto cordialmente e tornammo verso il porticciolo. Durante tutta la visita al villaggio eravamo sempre seguiti oltre che dal “sindaco” da almeno altre due persone in kalabeja bianca e turbante che ci controllavano e che (almeno a me diede questa impressione ) ci proteggevano. Brevissimo passaggio sulla motonave per rinfrescarsi, per prendere il cestino da viaggio e alle 10,30 circa ci trovammo tutti pronti per andare al tempio di Abu Simbel. Passammo vicino ad una cava di pietra dove c'era un enorme obelisco incompiuto. Durante l'estrazione, gli antichi operai, si accorsero che era difettoso e fu quindi abbandonato. Per andare ad Abu Simbel l'organizzazione doveva concordare con la polizia che faceva da scorta. Più esattamente era la polizia che annunciava l'ora del viaggio e chi voleva poteva aggregarsi. Dovevamo fare 300 km di deserto. Sahara in lingua egiziana significa “deserto”. Quindi dire “deserto del Sahara” è come dire “deserto del deserto. Infatti loro parlano di Sahara egiziano, Sahara libico, Sahara meridionale o Sahara settentrionale. Partimmo verso le 11. una macchina della polizia avanti a tutti e una alla fine. Una carovana praticamente. Su ciascun pullman un soldato armato. Sul nostro c'era un capitano che approfittava del suo servizio per accompagnare a visitare il tempio la moglie e il figlio, un bambino bellissimo di nome Assan, circa tre anni, che Nagy fece coccolare a tutti. Il viaggio attraverso il Sahara fu piuttosto noioso, il deserto è quasi tutto uguale. La strada era asfaltata, non molto larga, di fianco, a poche decine di metri correva anche una linea elettrica. Ogni tanto si incrociavano altre macchine o camion. A distanze quasi regolari c'erano della casette di fango vicino a delle enormi antenne per ripetitori telefonici o televisivi. In quelle casette viveva un custode. Dopo circa tre ore arrivammo in un posto con delle piante, Nagy ci disse che era un progetto dello stato, una specie di tentativo di bonifica del deserto. Poco dopo traversammo un canale pieno d'acqua che arrivava dal lago Nasser. Fatti pochi chilometri trovammo un grande canale in costruzione, lì non c'era ancora l'acqua. Dopo un altra ora circa giungemmo finalmente ad Abu Simbel. Avevamo anche oltrepassato il “tropico del cancro”. Il tempio è a soli 50-60 chilometri dal confine con il Sudan. In assoluto il luogo più a sud dove sono stato, per ora. Quando scendemmo dal pullman fummo come al solito assaliti dai venditori che ci offrivano di tutto, ma ormai ci eravamo abituati e riuscivamo a schivarli senza troppi problemi. Vicino ad un locale che poteva sembrare un bar, due giovani stavano litigando, forse per contendersi chissà quale posizione di vendita... Il tempio di Abu Simbel è forse il più famoso dell'Egitto, l'unico completamente scavato nella roccia. È stato spostato di 65 metri più in alto e di 300 metri più indietro da dove si trovava originariamente. Altrimenti sarebbe rimasto sommerso dalle acque del lago Nasser. È stata ricostruita anche tutta una collina intorno e sopra. È immenso. Fatto costruire dal Faraone Ramesse II (o Ramsete II o anche Ramses II, è sempre lo stesso) per intimorire i popoli nubiani e per commemorare la vittoria del Faraone nella battaglia di Kadesh. Il Faraone Ramsete II ha regnato per 67 anni, in assoluto il tempo più lungo di tutta la storia egiziana. Morì all'età di 92 anni. Un'età incredibile per le aspettative dell'epoca. Abu Simbel in realtà comprende due grandi templi, uno dedicato a Ramsete II e l'altro alla più importante delle sue molte tante mogli: la regina Nefertari. ( da non confondere con Nefertiti, che era la moglie di Akenaton III ) Nella sua lunga vita sembra che il Faraone Ramsete II abbia avuto circa 80 mogli, dalle quali abbia avuto 102 figli maschi e 97 figlie femmine. Il tempio è quanto di più bello e immenso si possa immaginare. Lo avevo visto solo in fotografia su qualche libro o in qualche documentario. Ma trovarsi li sul posto, ai piedi di quelle gigantesche statue praticamente perfette, di una straordinaria finitura che in Europa sarà raggiunta forse solo nel tardo medioevo, fa veramente impressione, per la perfezione, la proporzione e l' armonia delle sculture. Forse in origine erano colorate, e non riesco ad immaginarmi quale splendore potesse essere!! Sulla facciata, alta 33 metri e larga 38, spiccano le quattro statue di Ramsete II, sedute come sul trono con le mani sulle ginocchia, ognuna delle quali alta 20 metri, in ognuna il faraone indossa le corone dell'Alto e del Basso Egitto, il copricapo chiamato "Nemes" che gli scende sulle spalle ed ha il cobra sulla fronte. Ai lati delle statue colossali ve ne sono altre più piccole: la madre e la moglie Nefertari, mentre tra le gambe ci sono le statue di alcuni dei suoi figli, riconoscibili dai riccioli al lato del capo. Sopra le statue, sul frontone del tempio ci sono 14 statue di babbuini che, guardando verso est, aspettano ogni giorno la nascita del sole per adorarlo, in origine c'erano 22 statue di babbuini, tante quante le province dell'Alto Egitto, anche se secondo un'altra ipotesi le statue erano 24, una per ogni ora del giorno. Una delle statue di Ramses II è senza testa perché è crollata pochi anni dopo la costruzione del tempio a causa di un terremoto ed è rimasta ai piedi della statua. Nel crollo ha distrutto alcune delle statue più piccole che si trovavano nella terrazza del tempio. Quando è stato spostato la testa caduta è stata ricollocata esattamente dove si trovava. Sopra la porta di entrata del tempio in una nicchia scavata nella roccia, c'è la statua del Dio Ra' Ho Akthi, è il Dio falco unito al disco solare, la mano destra del Dio poggia sullo scettro indicante trasformazione, detto WSR, mentre la sinistra poggia sull'immagine della Dea Maat; Dea dell'ordine cosmico e della giustizia. Questi due simboli uniti al disco solare Rà si ritrovano nel cartiglio di incoronazione di Ramsete II, quindi il Faraone vuole indicare che il tempio è dedicato sia al Dio che a sé stesso. Ai lati della nicchia ci sono due altorilievi raffiguranti il Faraone mentre fa offerta del simbolo della giustizia al Dio. Ai lati delle statue poste presso l'ingresso ci sono delle decorazioni, c'è Hapy Dio del Nilo, simbolo dell'abbondanza, che lega fiori di loto, simbolo dell'Alto Egitto, con i fiori di papiro, simbolo del Basso Egitto, per dimostrare l'unione del paese. Sotto queste scene, nel lato destro, quindi a nord, sono rappresentati dei prigionieri asiatici legati con corde che terminano con il fiori dei papiri, simbolo del Nord, mentre nel lato sinistro, quindi a sud, sono rappresentati dei prigionieri africani legati con corde che terminano con fiori di loto, simboli del sud. All'entrata del tempio c'è una pesante porta di legno con la chiave della vita, “Ankh” che è veramente la chiave della serratura. All'interno dei templi non è permesso fare fotografie, ma fuori si, chiesi ad un guardiano se potevo fotografare la chiave, lui acconsentì... e mi chiese un euro. Dalla porta si accede alla grande sala dei pilastri, otto dei quali raffigurano il Faraone con sembianze di Osiride, le statue sono alte 11 metri. Nel soffitto ci sono disegni incompiuti che rappresentano la dea Nut che protegge il tempio con le sue ali distese. Ci si sente veramente piccoli di fronte a queste immense, enormi meraviglie. Le pareti della sala nel lato destro sono ricoperte di scene che rappresentano la vittoria di Ramses II nella Battaglia di Kadesh combattuta contro gli Ittiti. Nel lato sinistro ci sono altre imprese di Ramses II. Da qui si entra nella sala più piccola del tempio, detta dei nobili, con quattro pilastri quadrati coperti da rilievi raffiguranti il Faraone con varie divinità. Sulle pareti è raffigurato ancora il Faraone mentre offre profumi ed incensi alla barca di Amon, seguito dalla moglie, la regina Nefertari. Questa sala conduce al Sancta sanctorum. Il Santuario contiene quattro statue sedute che guardano verso l'entrata. Da sinistra a destra raffigurano Ptah (dio dell'arte, dell'artigianato, dell'oscurità e delle tenebre), Amon-Ra (dio del sole e padre degli dei), Ramsete II Deificato e Ra (il falco con il disco solare). All'epoca queste erano le più importanti divinità del panteon egiziano. Qui, grazie all'orientamento del tempio calcolato dagli architetti, due volte all'anno, il 21 febbraio, giorno della nascita di Ramsete II, ed il 21 ottobre, giorno della sua incoronazione, il primo raggio del sole illumina il volto della statua del Faraone. I raggi illuminano parzialmente anche Amon-Ra e Ra-Harakhti. Secondo gli antichi egizi i raggi del sole avrebbero così ricaricato di energia la figura del Faraone. Il Dio Ptah considerato dio delle tenebre non viene mai illuminato. Lo spostamento del tempio ha causato anche lo spostamento di un giorno questo fenomeno. Adesso si verifica il 22 febbraio e il 22 ottobre. In quei due giorni l'assalto dei turisti è veramente considerevole e quindi solo pochissimi riescono ad assistere all'evento. A nord del tempio maggiore, a un centinaio di metri, si trova il tempio dedicato ad Hathor ed a Nefertari la più importante moglie di Ramsete II. Anche questo completamente scavato nella roccia, La facciata, larga 28 metri ed alta 12 metri, è ornata da sei statue alte 10 metri, tre ad ogni lato della porta di ingresso. Le statue raffigurano quattro volte Ramsete II e due Nefertari. Ai lati delle statue del Faraone ci sono i figli in dimensioni minori, mentre ai lati di Nefertari sono raffigurate le figlie. È l'unico tempio egizio dove una regina ha la stessa importanza del faraone, lo stesso Ramsete II lo ha fatto scrivere in una incisione nei rilievi della facciata:... “la casa dei milioni di anni, nessuna costruzione simile è mai stata scavata”. L'entrata del tempio conduce ad una sala contenente sei pilastri alti 3,20 metri sulla cui sommità vi sono le teste di Hathor. Sui pilastri ci sono iscrizioni che raccontano la vita del Faraone e della regina e rilievi colorati che rappresentano sia Ramsete II che Nefertari con alcune divinità. Alle pareti vi sono scene del Faraone e della moglie che offrono sacrifici agli dei. L'ultima sala è quella con la statua della dea Hathor. Avrei voluto rimanere in quei templi in eterno. Quando arrivammo al bar dove avevamo appuntamento con Nagy, avevo mal di testa. Io ne soffro abbastanza e mi ero portato le mie pastiglie, ma le avevo lasciate in camera sulla motonave. Nagy appena mi vide mi scrutò mezzo secondo con molta attenzione, fece due occhi incredibilmente indagatori e mi chiese: - Mauro cosa hai? - Mi colpi il modo con cui me lo aveva chiesto, era veramente preoccupato, aveva notato qualcosa di diverso nei miei occhi, nel modo di fare, non lo so, se n'era accorto, aveva capito che avevo qualcosa che non andava. Nessun altro del gruppo se n'era accorto, nemmeno Manuela che dovrebbe conoscermi molto bene!! Massimo che era vicino a me fece un esclamazione rivolta a Nagy dicendo: “e che sei? Un sensitivo?” - solo un po' di mal di testa Nagy, niente di grave, ci sono abituato – risposi. Sembrò tranquillizzarsi, la risposta che gli avevo dato voleva tranquillizzarlo, gli dissi anche che non c'era nessun problema, non era colpa sua, che soffrivo spesso di mal di testa e che anzi mi ero meravigliato non mi fosse ancora venuto. Comunque, nonostante il mal di testa, la visita ad Abu Simbel fu veramente straordinaria. Pensare che dei popoli di 4000 anni prima fossero riusciti a costruire simili immense meraviglie!! ed anche il fatto che tutto il sito archeologico sia stato tagliato a fette spostato e ricostruito con tutta la collina sopra!! Sulla via del ritorno fotografammo il tramonto sul deserto, tra i tralicci della linea elettrica. Fosse stato possibile rispettare il programma e partire alle tre del mattino, avremmo fotografato l'alba!! e senza tralicci poiché sarebbe stato dal lato opposto. dopo cena Manuela e altri del gruppo andarono in un locale a bere tè alla menta e fumare il narghilé. Io mi addormentai e non ci andai, purtroppo. Manuela mi ha poi raccontato che è stata un'esperienza davvero straordinaria. Peccato. La mattina dopo era in programma la visita al tempio di Kom Ombo. È l'unico tempio dedicato a due divinità: il Dio Sobek, il Dio raffigurato con corpo umano e testa di coccodrillo; e al Dio Horo il Dio Falco, in questo caso Hroeris, cioè Horo il vecchio. Il coccodrillo è sempre stato un pericolo per le popolazioni che vivevano sulle rive del Nilo. Gli antichi egizi hanno pensato di divinizzarlo invece di combatterlo. Mi ricordava il Dio giaguaro del popolo inca. Nello stesso modo gli Inca avevano divinizzato quello che era una minaccia per la gente e per i loro allevamenti. Offrivano quindi al Dio giaguaro parte delle pecore o altri animali che allevavano per evitare che il giaguaro facesse razzie. Lo consideravano talmente importante che l'imperatore Manco Càpac, secondo la leggenda primo imperatore Inca, figlio di Viracocha, progettò la costruzione della città di Cuzco, la Capitale dell'impero Inca, con pianta a forma di giaguaro. Visibile solo dall'alto, volando. Il tempio di Kom Ombo è caratteristico, oltre che per essere dedicato a due divinità e quindi doppio in tutto, per alcuni bassorilievi che rappresentano degli strumenti chirurgici, delle donne che partoriscono e poi allattano, e di un calendario. Fuori dal tempio c'è un pozzo piuttosto grande. Il fondo del pozzo è in collegamento con le acque del Nilo. Sulla parete rotonda c'è una scala che scende e finisce nell'acqua. Gli antichi egizi lo avevano costruito per controllare il livello del fiume, lo chiamavano “nilometro”. Una volta all'anno il Nilo faceva una piena che portava con se il prezioso limo. Dal pozzo potevano controllare e prevedere l'arrivo della piena che era quasi sempre il 19 luglio (tradotto in calendario gregoriano). Per gli antichi egizi il 19 luglio era l'inizio dell'anno. Lo avevo letto in un romanzo di Wilbur Smith: “il Dio del Fiume”. Ambientato appunto all'epoca del faraone Seti I della XIX dinastia. Anche se lo consideravo un romanzo abbastanza attendibile, era evidente la grande cultura dell'autore, non immaginavo che il nilometro esistesse eramente. Nagy ci spiegò che il pozzo veniva chiamato anche “pozzo degli occhiali” perché a molte persone che si affacciano cadono dentro gli occhiali. Tornando alla barchetta che ci aveva portato al tempio, su un marciapiede, c'era un signore seduto per terra, in mezzo a molti venditori, che aveva tra le mani e tra i piedi, dei serpenti, dei Cobra con la loro caratteristica testa. Li teneva per la coda; uno addirittura lo teneva con le dita dei piedi. Si faceva fotografare in mezzo ai serpenti, al costo di un euro a foto. Tornammo alla motonave per il pranzo e nel pomeriggio partimmo per tornare a Luxor. Nagy disse che il ritorno sarebbe stato più veloce perché “siamo in discesa”. Passammo dalla chiusa di Esna verso le 17,30. era ancora giorno e potemmo assistere a tutta la manovra. Ritrovammo anche le numerose barchette che si agganciarono per vendere le loro mercanzie, e anche dal molo della chiusa quando la motonave scendeva per raggiungere il livello inferiore e il ponte superiore era poco più alto del molo. Numerose barchette si incastrarono tra le motonave e le pareti della chiusa e sfruttarono il passaggio. Continuamente cercando di vendere qualcosa. In qualsiasi momento della manovra. La sera stessa arrivammo a Luxor, al molo da dove eravamo partiti. Dopo cena molti del gruppo chiesero a Nagy se era possibile andare in un locale come quello della sera precedente, a fumare il narghilé. La prima cosa che rispose fu che il locale della sera precedente era unico e irripetibile. Vicino all'attracco della motonave c'erano altri locali, ma non avevano niente a che vedere con quello vicino al tempio di Kom Ombo. Ci volemmo andare comunque. Uscimmo sul molo ed andammo in una specie di bar. I locali sono molto diversi dai nostri. Era un giardino con diverse capanne di legno e paglia di diverse forme e misure. Ci sedemmo dentro ad una delle capanne. Venne con noi anche Ahjaraf. Era la sera della festa tradizionale in costume egiziano. Ahjaraf e Nagy erano vestiti con la loro tradizionale kalageja bianca e grigia. Arrivò il cameriere che prese le ordinazioni. Tè alla menta e quattro narghilé ai diversi aromi. Nagy ordinò una coca cola! Poco dopo il cameriere ci portò quello che avevamo ordinato. Nel narghilé viene fumato un tabacco particolare aromatico: alla fragola, alla menta e altre essenze. Appena eravamo arrivati nel giardino del bar avevamo subito sentito un odore dolciastro del fumo di tabacco alla vaniglia. In quei locali la gente si trova per parlare, giocare a carte, bere e fumare. Alcuni stavano leggendo un libro con il narghilé in bocca, altri guardavano la TV discutendo sul prossimo presidente. Tutti molto tranquillamente e tutti con i loro narghilé in mano. Bevvi il mio buonissimo tè alla menta naturalmente senza zucchero, come sempre, tra lo stupore dei presenti. Io comunque sostenevo e sostengo che lo zucchero altera il vero sapore del tè, o del caffè, o altre bevande. È solo una questione di abitudine. Mi passarono il narghilé. Io non fumavo più da almeno 16 anni, non ero sicuro di provare. Pensavo di aspirare il fumo senza traspirarlo, giusto per sentirne il sapore, o il profumo. Ci provai. Non fu una cosa semplice, per fare arrivare il fumo bisogna aspirare molto forte e viene naturale di traspirarlo, è impossibile evitarlo. Almeno per me. La caratteristica del narghilé è che il fumo passa da un vaso di acqua dove si raffredda e quando arriva in bocca non brucia. Il sapore era buono e anche il profumo, ma dopo due tirate mi cominciò a girare la testa. Non ci ero più abituato e decisi di lasciar perdere. Così finii il mio tè alla menta senza zucchero e la mia esperienza con il narghilé. Seduti su una panca c'erano Nagy e Ahjaraf con la loro kalabeja e il narghilé. Nagy con la sua lattina di coca cola e Ahjaraf con il telefonino all'orecchio. Erano veramente buffi. La mattina dopo era prevista la visita ai templi di Luxor e Karnak, sulla riva orientale del Nilo. Il primo fu il tempio di Luxor. Schivando i soliti venditori di ricordi raggiungemmo l'entrata. C'è un viale largo una ventina di metri e lungo tre chilometri che collega il tempio di Luxor con il tempio di Karnak. Su entrambi i lati del viale ci sono centinaia di sfingi alte un paio di metri, praticamente dei leoni a grandezza naturale. Tutte uguali, tutte in linea. Una parte del viale è inglobato nella città di Luxor. Stanno cercando di riportarlo completamente alla luce. Il tempio è molto grande, all'arrivo del viale delle sfingi sorge il primo pilone con ai lati due enormi statue di Ramsete II seduto sul trono e con un obelisco su un solo lato. Un tempo ce n'era uno anche sull'altro lato ma fu donato alla Francia dal Pascià Mehemet Alì e portato a Parigi nella piazza della concordia, dove si trova tuttora. Attraverso il portale si accede al cortile colonnato che fu costruito obliquamente rispetto all'area retrostante, presumibilmente per rispettare la preesistente cappella tripartita in cui erano custodite le barche sacre della triade tebana formata dagli dei Amon, Mut e Khonsu che si trova addossata sul retro del 1º pilone. La cappella della Triade tebana fu opera di Tutmosis III anche se poi fu restaurata da Ramsete II. L'intero cortile è contornato da colonne a foglia di papiro di cui una parte è stata inglobata però nella Moschea di Abu el Haggag edificata nel XIII secolo. In questo stesso periodo l'intero cortile fu occupato da un villaggio arabo che fu definitivamente sgomberato solo in seguito a scavi archeologici iniziati nell'Ottocento. Il colonnato è talvolta interrotto da statue rappresentanti Ramsete II, tra cui si notano in particolare due enormi statue del sovrano poste all'inizio del colonnato di Amenofi III. Le basi di entrambe le statue sono decorate con disegni che celebrano l'unificazione dell'Egitto. Il Dio Hapy è infatti rappresentato nell'atto di unire l'Alto Egitto e il basso Egitto simboleggiati ciascuno da un fiore di loto e da un fiore di papiro mentre vengono legati l'uno all'altro. Dopo il cortile, attraverso il pilone di Amenofi III, si accede ad un corridoio lungo 100 metri e fiancheggiato da 14 colonne con capitello a forma di papiro. Le decorazioni furono eseguite per ordine di Tut Ankh Amon, ma il suo nome fu sostituito con quello di Haremhab. Sulle pareti vi sono rappresentate le fasi della processione della barca sacra di Amon, durante la festa annuale di Opet. Altre decorazioni invece celebrano la vittoria dell'ortodossia religiosa dopo l'eresia del faraone Akenathon. La galleria immette nel grande cortile-peristilio, risalente alla costruzione originaria di Amenothep III dove si svolgeva la cerimonia principale di Opet con le barche sacre. Poi queste erano portate all'interno del tempio. Le colonne del lato orientale conservano ancora tracce dei colori originali. Il lato meridionale del cortile è occupato da una sala ipostila composta da 32 colonne, che dà accesso al santuario del tempio. L'area del sancta sanctorum è costituita da un’anticamera. Questa anticamera fu in epoca romana trasformata in chiesa e fu ornata da stucchi che andarono a ricoprire senza distruggerle le precedenti decorazioni. In seguito le decorazioni più antiche furono riportate alla luce. La porta di accesso all'area più interna fu chiusa e opportunamente modellata assunse la forma di un'abside davanti alla quale fu posto un altare. In seguito nell'abside fu aperto uno stretto passaggio che permise l'accesso alla sala detta delle "offerte". L'area del santuario era quella preposta ad accogliere la barca sacra che, giunta dal Grande tempio di Amon, veniva qui deposta al termine della festa annuale di Opet. All'interno del Santuario, probabilmente in età tolemaica, i sovrani ellenistici fecero costruire il naos dedicato ad Alessandro Magno in cui era presente una copia della sua barca sacra intesa però come barca funebre. I muri della cappella sono ricoperti di decorazioni che raffigurano il sovrano al cospetto delle divinità egizie. In particolare della triade. Nella prima immagine Alessandro Magno è raffigurato in compagnia di Horus come Ra-Horakhty, caratterizzato dalla presenza del disco solare sopra la testa. Horus lo tiene per una mano mentre con l'altra gli porge l'Ankh, chiave della vita e simbolo della natura divina. La scena si svolge al cospetto di Amon davanti al quale è stato condotto. Nella parte più profonda del tempio si trova il Santuario di Amon ed era il luogo in cui era custodita la sua statua. Questa era la destinazione finale della Barca sacra proveniente dal Grande tempio di Amon e qui la divinità si rigenerava. In una stanza laterale è raffigurato il ciclo allegorico della nascita di Amenhotep III e della sua origine divina. Secondo la tradizione il Dio Amon, assunte le sembianze del faraone Thutmose IV, si unì alla sua sposa Mutemuia. Dall'unione nacque il faraone Amenhotep III. Uscimmo dal tempio frastornati da tutte le storie e le leggende che avevamo ascoltato, visto e fotografato. Non facemmo caso ai soliti venditori di ricordi. Avevamo imparato a non considerarli, fanno parte del paesaggio come i templi o le palme. Con la differenza che questi si muovono. Risalimmo sul pullman per andare al tempio di Karnak. Se il tempio di Luxor è impressionante per le dimensioni, le statue, i cartigli, la storia e la leggenda; il tempio di Karnak lo è molto di più. Oltrepassata la biglietteria ci incamminammo in una grande piazza prima di arrivare all'entrata del primo pilone. Si attraversa un ponticino di legno e ci si trova in un viale di sfingi dette “criocefale”. Simili alle altre ma con la testa di ariete. Nagy ci disse che il tempio di Karnak è il più grande per estensione di tutto l'Egitto. Copre una superficie di 31 ettari!! per la sua costruzione ci sono voluti 2000 anni. Praticamente è un tempio che ha assistito a quasi tutta la storia delle dinastie egizie. Ci sono tracce di molti Faraoni, ognuno ha voluto lasciare la sua impronta e molti hanno tentato di cancellare le impronte dei loro predecessori. L'ingresso principale , o quello che sembrerebbe, è rivolto verso nord-ovest, dove c'è un piccolo viale di circa 30 metri con le sfingi criocefale. Si entra dal primo pilone e ci si trova in una piazza con delle colonne. Oltre la piazza c'è di tutto: statue enormi, colonne gigantesche, iscrizioni, cartigli, obelischi scarabei e persino un lago. C'è una sala con 134 colonne enormi e vicinissime. Ci abbiamo pensato, io e Pier. Delle colonne così grandi non hanno una funzione strutturale, non servono a sorreggere il tetto (che fra l'altro non c'è più) tutto il complesso templare è di dimensioni ciclopiche, esageratamente enormi. A che serviva un tempio così grande? Ma ci siamo risposti molto facilmente: i fedeli che arrivavano in un così grande tempio si sentivano molto piccoli, insignificanti davanti alla potenza di Dio. (o dei sacerdoti ?) Non è uguale nelle grandi chiese e cattedrali cristiane, cattoliche, ma anche le moschee e le sinagoghe? Ricordavo le grandi cattedrali gotiche di Canterbury, di Wells di Notre Dam, o la più famosa: quella di Chartes in Francia. Davanti alle facciate immense di quelle cattedrali ci si sente veramente minuscoli, non rimane altro da fare che sottomettersi al volere di Dio (o dei sacerdoti?) Proseguendo si incontra un obelisco altissimo, 18 metri, fatto erigere dal Faraone Amenofi III. Poco distante c'è un altro obelisco ancora più alto: 24 metri, il più alto dell'Egitto e forse del mondo intero. Fatto erigere dalla regina Hatshepsut. In origine erano due e furono fatti erigere da un giovane architetto innamorato della regina. Il faraone Tutmosis IV che succedette ad Hacshepsut fece costruire dei muri intorno agli obelischi. Non poteva permettere che una regina Femmina avesse degli obelischi più grandi del suo predecessore maschio. I muri però hanno meglio conservato e protetto gli obelischi di Hacshepsut e l'unico rimasto (l'altro è caduto e la punta si trova distesa in uno spiazzo vicino) è praticamente perfetto. Chissà se un tempo era anche colorato. Sarebbe interessante conoscere la storia della gente comune in relazione alle modificazioni del grande tempio di Karnak: Il faraone Tutmosis IV fa costruire un muro per nascondere i due obelischi di Hacshepsut. Passati due o tre secoli, nessuno si ricordava più a cosa fossero serviti quei due muri che sembrano delle torri. Intorno a quelle due torri si susseguono intere generazioni che forse hanno sentito qualche storia. Ma la memoria umana piano piano svanisce, ad ogni generazione che passa la storia si assottiglia. Infine rimangono i nonni che hanno sentito dai loro nonni e che raccontano ai nipoti della leggenda che narra che dentro le torri in un tempo lontano, ci fossero due obelischi giganteschi, ma che nessuno riuscirà mai a scoprire!! Ma nel frattempo altri Faraoni fanno costruire delle enormi colonne per sorreggere un tetto gigantesco. E nessuno pensa più agli obelischi di Hacshepsut. Nessuno si ricorda più. Finché, dopo chissà quanti secoli, un giorno, forse per una scossa di terremoto, uno degli obelischi cade portandosi dietro tutto il muro che lo proteggeva e cadendo scopre anche l'altro. Allora i più vecchi si ricordano dell'antica leggenda degli obelischi di Hacshepsut... Sul retro del complesso templare c'è un piccolo laghetto che serviva ai fedeli per lavarsi e purificarsi prima di entrare nel tempio. Vicino al laghetto c'è una piccola torretta rotonda con sopra la statua di uno scarabeo. Nagy ci disse che facendo almeno due giri, o comunque un numero di giri “pari” e infine toccare il retro (il culo) dello scarabeo pensando ad un desiderio da realizzare, quel desiderio si avvererà. Ma non si deve dire a nessuno quale fosse il desiderio. Facendo tutta la cerimonia ma con un numero dispari di giri, non solo il desiderio non si avvererà, ma saremo anche perseguitati dalla sfortuna. Cominciammo a girare intorno allo scarabeo ma perdemmo il conto, non so se i giri furono sette o otto. Alla fine toccai il culo dello scarabeo e sperai di aver fatto un numero di giri pari. Tornando alla motonave Nagy volle farci assaggiare una specialità egiziana: il succo di canna da zucchero. Il pullman si fermò vicinissimo ad una botteghina, (non si fidava a farci camminare tanto in giro per Luxor ) una sola stanzetta con un banco d'acciaio e dietro una macchina strana. Un cubo d'acciaio con un foro in alto e uno in basso. Nagy parlò in egiziano con un tipo che stava dietro al banco e quello prese delle canne che erano in un angolo tra la macchina e un muro e le infilò nel foro in alto. Dal foro in basso cominciò ad uscire un liquido giallognolo che veniva raccolto tramite un filtro, in una caraffa sempre di acciaio. Dalla caraffa veniva poi versato in dei grossi bicchieri di vetro con un manico tipo quelli da birrerie. Nagy ci disse che chi si fidava poteva assaggiare. Furono riempiti quattro o cinque grossi bicchieri. Quasi tutti vollero assaggiare. Solo Tommaso e Irene non vollero rischiare. Pier detto Messico ebbe una bella idea: chiese se poteva avere un pezzetto di quella canna da zucchero. Il negoziante gliene diede una intera. Pier disse che bastava più piccola allora la dividemmo in tre pezzi e uno lo presi anch'io. Il sapore di quella bevanda non mi piacque granché, era troppo dolce e poco rinfrescante. Immagino fosse estremamente sostanzioso. Prima di tornare alla motonave per il pranzo era prevista un'altra tappa: una gioielleria. Una grande gioielleria. C'erano gioielli di tutte le forme e dimensioni. Su un lato l'argento e sull'altro l'oro. Veramente belli e di una fattura straordinaria. Comprai un piccolo ciondolino d'argento con la chiave della vita Ankh al costo di tre euro, anche se ne voleva cinque. Il pomeriggio era di riposo , tè alla menta sul ponte e relax. Ma non la sera dopo cena. Ci portarono a vedere Luxor di notte. Ci fecero salire su dei calessini, come quelli di Edfu, trainati da un cavallo. E ci scorrazzarono per le strade di Luxor. All'inizio ci fecero vedere il tempio di Luxor illuminato con tutto il viale delle sfingi. Poi ci fecero visitare una chiesa cristiana copta. Bellissima, tutta illuminata da lampadari e con belle icone alle pareti. In disparte su delle panche c'erano due sacerdoti caratteristici con la loro lunga barba che stavano confessando altrettanti fedeli. Infine ci addentrammo in delle straduzze strette e polverose, in mezzo a banchi di mercato, il calessino ci passava preciso, dove vendevano di tutto: abiti, cipolle, balle di cotone (grezzo appena raccolto), frutta, giradischi, narghilé, tabacco e altre foglie di non bene specificata natura, verdura e carne di pecora (o forse cammello?) infine un grande impianto audio: (io da fonico ho calcolato approssimativamente in 5/6000 Watt) che mandava a tutto volume canzoni di rock egiziano (molto orecchiabili). Durante quel breve tragitto si accostò al nostro calesse, anche pericolosamente vicino, una ragazzina, avrà avuto intorno ai 10-11 anni, con un vestitino azzurro e scalza. Ci guardava e ci supplicava qualche monetina, ci correva dietro gridando frasi in egiziano. Sembrava si rivolgesse proprio a me e Manuela. Il primo impulso che mi assalì fu quello di farla salire con noi e portarla a casa nostra. Ma non potevamo, non sarebbe stato possibile in nessun caso. Ma io che sono un sognatore non ho potuto fare a meno di immaginarmi quella ragazzina a casa nostra, in mezzo al verde della toscana, nutrita e pulita. Non ho potuto fare a meno di immaginarmi che di li a qualche anno, o mese, sarei tornato a cercarla per portarla via. La ragazzina sparì nel caos del mercato ma non dalla mia testa. Ed io non ho ancora smesso di sognare. Il traffico sempre caotico anche lì, anche di notte: taxi collettivi che sfrecciavano con gli sportelli aperti (per il caldo?) in mezzo a carretti trainati da somari e calessi con i cavalli, auto sgangherate con luci lampeggianti blu verdi e rosse, moto marca Dayun (di fabbricazione cinese, sconosciute da noi) con tre o quattro passeggeri vestiti con la loro kalabeja, (come faranno a stare sulle moto con quel vestito?) poi giardini pubblici con bambini sulle altalene, alle 11 o mezzanotte!! Ma non era finita. La mattina dopo, domenica, la sera dovevamo ripartire, ci hanno voluto portare ancora nella città di Luxor, questa volta a bordo di un carretto trainato da un somaro. L'hanno chiamata “l'asinata”. Si doveva traversare il Nilo e andare nella zona occidentale. La città povera, contadina. Ci hanno fatto salire su quei carretti sgangherati trainati da degli asinelli e guidati da dei ragazzini. Ci siamo infilati in certi vicolini stretti e polverosi, pieni di gente che svolgeva le proprie quotidiane attività. Le botteghe, gli artigiani, i fruttivendoli, i contadini nei loro campi coltivati. Siamo passati in mezzo a una piantagione di banane, un campo di grano, un giardino di palme e oleandri. Infine nelle straduzze della città povera dove spesso dei bambini scalzi ci salutavano con la manina. Un trasformatore di media tensione (10/15000 volts) montato su un palo di legno, a portata di mano, i cavi separati tra loro con le canne da zucchero. Infine ci hanno portato in una casa dove ci hanno offerto il tè alla menta, come al solito. C'era un cortile interno alla casa dove avevano forno di fango per il pane, e anche uno strano marchingegno di legno che sembrava un ritrecine, ma non sembrava più in uso. Ci hanno venduto le foto che ci avevano fatto sul carretto, ci hanno fatto fare un giro su un dromedario, (non tutti, solo due o tre). Poi siamo tornati a piedi, per un breve tratto, sulla riva del Nilo per tornare alla motonave. Durante quel breve tragitto abbiamo potuto osservare da vicino i tanti negozi con ogni genere di mercanzia. Le caratteristiche macellerie che espongono cosce di mucca appese fuori sotto una tettoia. Nagy la chiamò la famosa “carne moscata”. Dana ebbe una bella idea: decise di comprare un cocomero da mangiarsi sul ponte della nave nel pomeriggio. Scegliemmo un bel cocomero e contrattammo il prezzo fino a 2 euro e 35. Potevamo tenere la camera fino alle 17. poi saremmo saliti sul ponte in attesa della partenza per l'aeroporto previsto per le 19 circa. Sulla barchetta che ci riportava sulla riva est del Nilo, era salita anche una bambina che si sedette vicino al signore che guidava la barca. Doveva essere sua figlia. Si assomigliavano. Era bellissima, non riuscivo a smettere di guardarla e fotografarla. Somigliava alle statue e alle raffigurazioni della regina Nefertiti, senza la corona. Il primo pomeriggio fu dedicato ai bagagli che consegnammo ai facchini. Poi come d'accordo ci ritrovammo tutti sul ponte per il cocomero. Naturalmente c'era anche Nagy. Avevamo fatto una piccola colletta per fargli un regalo, 5 euro a testa. Non so se se lo aspettava o meno. Quando gli consegnammo la busta disse che era già pagato, noi gli dicemmo che quello era un nostro regalo personale che non volevamo in nessun modo offenderlo, ma ringraziarlo. Come in tutte le vacanze quel pomeriggio fu dedicato allo scambio degli indirizzi, e-mail. Poi attaccammo il cocomero. Nagy, nella sua immensa generosità, prese dei pezzi di cocomero e lo diede ad alcuni camerieri della nave attraccata vicino alla nostra. Come chiamarla? Solidarietà tra egiziani? Lui che si sentiva privilegiato per il lavoro che faceva e voleva dividere in qualche modo la sua fortuna con la gente del suo popolo meno fortunata? Non glielo abbiamo chiesto ma suppongo che avrebbe risposto che per noi era troppo e che altrimenti sarebbe finito nel secchio della spazzatura. Meglio se finiva nella pancia di quei camerieri... A proposito di questo, sul fiume avevo visto passare, durante la settimana, diverse barchette cariche di tanti sacchi azzurri, pensavo fosse una specie di servizio tipo nettezza urbana. Una di queste barchette si fermò vicino alla motonave. Dal ponte potevo vedere che i sacchi di spazzatura venivano aperti e scelto il contenuto. Se c'era qualcosa di buono possibilmente commestibile veniva selezionato e messo in altri sacchi, il resto buttato nel fiume. Giunse purtroppo l'ora fatidica della partenza. Nagy non ci accompagnò all'aeroporto, lo salutammo sulla motonave con grandi strette di mani baci sulle guance e abbracci. Non ero molto pratico di gite organizzate, ma mi sembrò un saluto particolarmente caloroso verso una guida che aveva “solo” fatto il suo lavoro. In effetti, a detta di Massimo e Paola che avevano avuto altre esperienze del genere, una guida come Nagy non la avevano mai trovata. Si era preoccupato di tutto: dalle medicine per Tommaso, alle trattative per i papiri, per le essenze o per i segnalibri falsi; a cambiarmi la maglietta con il cartiglio con il mio nome i geroglifico perché era sbagliata la misura, o a portarci a fumare il narghilé. Cose che sicuramente non rientravano nel programma. Non so quanto possa essere usuale che i componenti di un gruppo vacanze facciano una colletta per fare un regalo alla loro guida. Voglio sperare che Nagy ne sia rimasto molto contento, non tanto per la piccola somma di denaro, quanto per il gesto. Ci ha promesso che se un giorno volessimo tornare in Egitto per qualche altra occasione bastava comunicarglielo (abbiamo tutti la sua mail) e si sarebbe occupato lui di tutta l'organizzazione. A noi bastava fare il biglietto aereo. E chissà che un giorno non riesca a tornare per andare a visitare il Cairo: le piramidi, la sfinge e il museo egizio o chissà cos'altro. E magari a Luxor per ritrovare quella ragazzina scalza con il vestitino azzurro. Alle 19 in punto eravamo saliti tutti sul pullman che ci portava all'aeroporto. Era già buio, le giornate sono più corte man mano che si scende a sud, nel periodo estivo. Sulla linea dell'equatore sono sempre di 12 ore di luce e 12 ore di buio. Ormai eravamo esperti di aerei e aeroporti, passammo tutti i controlli senza problemi, e ci ritrovammo su un'enorme terrazzo per mangiare un boccone. Arrivò una signora che vedendo alcuni di noi che fumavano si alterò dicendo ( in dialetto livornese o comunque di quelle parti ) che lei lo aveva chiesto se era permesso fumare, e l'avevano portata in un luogo segreto dove poter fumare di nascosto, in cambio di un euro. Chiamarono dall'altoparlante il nostro volo e ci incamminammo verso il pullman: la nostra vacanza era finita. Sono tornato da questo viaggio pieno nostalgia per quel paese straordinario. I venditori di ricordi non mi hanno venduto solo braccialetti o tovaglie, mi hanno insegnato a “vedere” le persone e non solo a “guardarle”, come insegnava Don Juan a Carlos Castaneda, e di questo gliene sono molto grato. Credo di aver capito che prima di tutto mi piace la gente, indipendentemente dal luogo dove gli è capitato di nascere. Mi piace osservare i loro modi di fare, conoscere le loro tradizioni, ascoltare le loro storie, le loro barzellette, annusare la loro aria e assaggiare i loro cibi, ammirare la loro abilità, la loro manualità, il loro modo di risolvere le questioni, il loro fantastico modo di dire: “non c'è problema!”: Una mattina Nagy attaccò un cartello al parabrezza del pullman che copriva parte della visuale dell'autista, glielo dissi ma mi rispose: - non c'è problema, conosce la strada a memoria lui -. Credo che “visitare” un paese non significhi solo guardare i suoi monumenti o le sua montagne. E nemmeno portare la nostra “civiltà” o “democrazia”. Ma significhi sopratutto ascoltare, osservare e confrontare le diverse culture, religioni, civiltà o democrazie. Ascoltavo Nagy che ci raccontava delle loro leggi, dei loro modi di dire, i loro proverbi, le loro favole. A mia volta raccontavo e confrontavo le nostre, spesso molto simili. Incredibilmente simili. Adesso vedo i tanti stranieri che vivono in Italia con occhi diversi, adesso che ho visto (in parte) i luoghi dai quali provengono. Non mi dimenticherò mai dei bambini all'asilo nel villaggio Nubiano, dei bambini cantanti sul Nilo, di quegli che ci salutavano con la manina, delle donne che vendevano segnalibri di papiro falso. E sopratutto della ragazzina scalza con il vestitino azzurro! Ma loro, con che occhi ci vedevano? Immagino che per loro eravamo solo dei ricchi turisti occidentali. Su un cartello pubblicitario di una agenzia di viaggi c'era una frase molto bella, (strano per un cartello pubblicitario) diceva: “viaggiatori, non turisti”. Per concludere vorrei ricordare un film a cartoni di qualche anno fa: “alla ricerca della valle incantata”, di Steven Spielberg, la grande madre brontosaura insegna al suo piccolo che: “certe cose si vedono con gli occhi, certe altre si vedono con il cuore” M. F.